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La storia di Andrea e lo sguardo che cambia

Un volontario della Fondazione Di Liegro racconta come è cambiato il suo sguardo verso il disagio e l’emarginazione incontro un amico dell’adolescenza.

Lo chiamavamo “Andrea il brutto”. Ce n’erano cinque di Andrea, tra gli adolescenti del complesso di palazzi appena costruiti, in cui le nostre famiglie erano andate a vivere, convergendo da tanti quartieri della Capitale. C’era Andrea il moro, Andrea il biondo, Andrea il roscio (così chiamiamo chi ha i capelli rossi noi romani), Andrea il bello. E poi, appunto, Andrea il brutto. I soprannomi erano stati affibbiati dal più grande tra i ragazzi che si ritrovavano a fare gruppo in piazza, un bravo ragazzo, in fondo, ma con una esuberanza da bullo. Anche se il bullismo, per quanto molti di noi lo avessero già vissuto, era un termine e una consapevolezza lontana dall’essere compresa e rifiutata, in quei primi anni ’80.

Lo chiamavamo dunque Andrea il brutto. Per comodità, diciamo così. In modo da distinguere gli Andrea, quando si parlava o si formavano le squadre per giocare a pallone in mezzo alla strada. Ma se non sapevamo ancora cos’era il bullismo, era chiara la connotazione dispregiativa in quell’etichetta “Andrea il brutto”.

D’altronde, era “un tipo strano”… CONTINUA A LEGGERE

 

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