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Notizie DELLA FONDAZIONE DI LIEGRO

Intervento di Mons. Luigi di Liegro all’edizione 1998 del premio “Cultura della pace” - Città di Sansepolcro

Sansepolcro, 7 Dicembre 1996

Io ho partecipato volentieri a questa manifestazione perché credo che ne usciremo fuori con un incoraggiamento ad essere operatori di pace e a saper apprezzare il sacrificio che molti fanno per essere nella vita di tutti i giorni, operatori di solidarietà e giustizia. Il significato di questa celebrazione è un po’ quello di esaltare alcune figure che, certamente, non hanno solo parlato, ma soprattutto hanno dato la propria vita per la realizzazione di questo ideale altissimo, quale è quello della pace. Ideale altissimo, ma anche abbastanza evanescente: reputo che lavorare per la pace significhi innanzitutto, fare alcune prese di coscienza, prendere impegni che ci portano a saper, giorno per giorno, in tutti gli avvenimenti che ci toccano, o ci colpiscono, discernere un appello alla pace, inteso come diritto ma anche come dovere. Una presa di coscienza che ci porta anche a vedere non tanto teoricamente, (non perché non sono amante della teoria), ma concretamente i rapporti, l’interdipendenza che c’è tra noi e i fenomeni dell’ingiustizia, della disuguaglianza. Fenomeni, questi, che ci portano a verificare la situazione di non-pace che c’è nella nostra società e nel mondo.

Prendere coscienza della stretta dipendenza che c’è tra noi e gli altri significa capire che la pace dipende da tutti e certamente, che non si fa la pace con gli slogans. Dobbiamo saper promuovere una cultura di pace che dipenda dal discernimento della storia che noi stiamo vivendo. Significa cioè entrare negli avvenimenti della storia, di quest’epoca per poter vedere responsabilità in senso negativo e positivo. Responsabilità che ci toccano direttamente e, da questa presa di coscienza, da questo discernimento, nasce la cultura della pace, cioè la cultura del dialogo, la cultura dei rapporti. Non è la cultura classica, fatta di  nozioni o di tesi, che pure serve a far crescere in noi sensibilità, ma quella conoscenza di esperienze storiche e di un patrimonio storico che diventa per tutti un punto di riferimento. Basta passare qualche ora qui a Sansepolcro per vedere come questo patrimonio culturale e storico che si legge in questa città, sia essenziale per poter favorire una cultura umanistica, sull’Uomo. Dobbiamo però anche tener conto che siamo noi in prima persona a essere i fautori e i promotori di una cultura. Intendo questo come base per poter fare della nostra vita, una vita che si dedichi nel modo più radicale possibile, al servizio degli altri. Io credo che la pace non ci sia ancora, perché non c’è questa cultura del saper vedere nell’altro, non un nemico, un avversario, una persona da abbattere, ma la stessa dignità che io difendo in me stesso, vederci i miei stessi diritti. Si è parlato prima di questa grossa assemblea organizzata dall’ONU a Roma. Qui si era immaginato di definire come un diritto, il mangiare: uso questa parola perché c’è gente che non può mangiare, forse anche nei nostri paesi, nelle nostre città, sempre di più a Roma per esempio. Gli americani non sono stati d’accordo a definire il mangiare, l’alimentarsi un diritto dell’Uomo. Allora voglio dire che probabilmente il nostro impegno che nasce questa sera, e oggi viene alimentato e incoraggiato, è proprio questo prendere coscienza che l’Altro diverso da me ha gli stessi diritti che io ho: il diritto al lavoro, al rispetto, all’integrazione e direi, alla cultura, il diritto al rispetto della sua identità culturale, religiosa, sociale. Ci siamo dimenticati in questo che anche la Costituzione faceva del riconoscimento dei diritti un impegno per la garanzia dei diritti stessi.

Mi pare che in parlamento alcuni stiano lavorando per evitare di continuare a dichiarare che il lavoro sia un diritto di tutti, che la cultura sia un diritto di tutti: qualcuno sostiene che la Costituzione non può continuare a dichiararlo. Sappiamo che anche se enunciati, molti diritti sono quotidianamente violati. Sempre meno la politica è disponibile a garantire i diritti che sono scritti. Ma forse questi diritti sono scritti troppo in alto per evitare di sbatterci la testa e direi che ogni giorno noi dovremmo sbattere la testa là dove questi diritti fondamentali non solo, non sono garantiti ma, addirittura, si vuole rinunciare a riconoscerli per il futuro. Penso che esistano esempi concreti dove serve l’impegno di diffondere la cultura della pace: non mi riferisco solo all’immigrazione nel nostro Paese che porta tra noi differenze culturali, religiose, identità diverse che sono anche ricchezza culturale. Se prendiamo coscienza di questa ricchezza possiamo sconfiggere la paura che è il contrario della pace. Perché la paura fomenta la violenza. Siamo operatori di pace: ma cos’è che è avvenuto al Senato e poi in Parlamento dopo la dichiarazione o la promessa di regolarizzare 240.000 immigrati che avevano fatto domanda, cioè la proposta di vacatio legis che sarebbe stata la vergogna dello Stato Italiano nei confronti di tanti Paesi considerati in via di sviluppo? Siamo lontani dall’essere promotori di pace quando parliamo di queste diversità se ci provocano cambiamenti di mentalità. Nel nostro paese ho visto tanta gente che dice di appartenere alla cultura di sinistra e che poi su questo argomento dell’immigrazione si sbracano e allora, non si sa più cos’è la cultura della sinistra e non si riesce a capire nemmeno più che significa fede. Quando l’altro diverso da me non viene accettato, allora non posso continuare a dire che voglio la pace. Laddove le differenze sociali e soprattutto le differenze culturali, etniche, religiose non vengono accettate come una ricchezza, causano una provocazione alla solidarietà, un impegno di partecipazione al bene comune che è sempre il bene di ciascuno e di tutti. Ed io ritorno a Roma incoraggiato dalla testimonianza che oggi viene premiata nel senso più nobile della parola, perché credo che siamo più premiati noi che assistiamo a questa celebrazione di consegna di un premio, di quanti lo ricevono. Perché questa consegna di un premio non ha niente di retorico: ha semplicemente la motivazione di dire che ci vogliono testimoni come loro, per fare del mondo un mondo più pacifico, cioè più giusto e più solidale.

Don Luigi Di Liegro

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