"Ci sono pochi luoghi in una vita, forse persino uno solo, in cui succede qualcosa; dopodiché ci sono tutti gli altri luoghi." (Alice Munro)
Il pensiero messo in fuga. O fuori uso. Il pensiero rientrato. Il pensiero disturbato da qualcosa d'indicibile. Il pensiero ricreato. Compatto. Adulto. Questo centro diurno è il grembo dei pensieri. Ma anche dell'impegno dei pensieri. Le attività. I confronti. I colloqui. Ci permettiamo di essere impazienti di crescere, di concentrarci, d'incontrarci. E quando questo avviene, l'incontro, ci mostra a non temere il caos, ma a danzare con il caos. Perché lo si respira nell'aria il tumulto di pensieri impegnati. Il centro diurno ridefinisce le nostre priorità. E noi impariamo, attraverso l'impegno dei pensieri, a orientare la forza vitale che è in noi. A sprigionare quell'energia che si libera con l'altro, qui ed ora.
Silvia Bove
*in copertina il dipinto "Come mi vedo attraverso di te" opera dell'autrice stessa.
Questa è la storia di Andrea, e di come cambia uno sguardo. Lo chiamavamo “Andrea il brutto”.
Ce n’erano cinque di Andrea, tra gli adolescenti del complesso di palazzi appena costruiti, in cui le nostre famiglie erano andate a vivere, convergendo da tanti quartieri della Capitale. C’era Andrea il moro, Andrea il biondo, Andrea il roscio (così chiamiamo chi ha i capelli rossi noi romani), Andrea il bello. E poi, appunto, Andrea il brutto. I soprannomi erano stati affibbiati dal più grande tra i ragazzi che si ritrovavano a fare gruppo in piazza, un bravo ragazzo, in fondo, ma con una esuberanza da bullo. Anche se il bullismo, per quanto molti di noi lo avessero già vissuto, era un termine e una consapevolezza lontana dall’essere compresa e rifiutata, in quei primi anni ’80.
Lo chiamavamo dunque Andrea il brutto. Per comodità, diciamo così. In modo da distinguere gli Andrea, quando si parlava o si formavano le squadre per giocare a pallone in mezzo alla strada. Ma se non sapevamo ancora cos’era il bullismo, era chiara la connotazione dispregiativa in quell’etichetta “Andrea il brutto”.
D’altronde, era “un tipo strano”: aveva dei tic, a volte sembrava parlare da solo, altre volte tendeva agli scatti d’ira quando riteneva di aver subito un fallo di gioco, e per qualcuno di noi il gusto era proprio quello di provocarlo e vederne la reazione. “Strana” era anche la sua famiglia, dal nostro punto di vista di adolescenti viziati dalle attenzioni dei nostri genitori e dal benessere che ci avevano regalato. Però sapevamo vedere la dignità della mamma e del papà di Andrea e sentivamo un po’ della fatica di due genitori con handicap che si spostavano coi mezzi pubblici per andare a lavorare e fare la spesa (noi che venivamo da famiglie che possedevano due automobili). Tra i miei ricordi dell’adolescenza c’è indelebile la loro zoppia, il passo claudicante, quando tornano a casa, trascinandosi lentamente per la piazza su cui si affacciavano i nostri appartamenti, come un teatro di asfalto e cemento.
Ed è stato per farsi accettare da tutti noi adolescenti della piazza che, alla fine della terza media, Andrea ha organizzato una sfida a calcio: noi contro i suoi compagni di classe. Solo che quelli venivano dalla sponda opposta della strada consolare intorno a cui stava venendo su il nostro quartiere. Loro venivano dalla parte di edilizia popolare, messa in piedi molti anni prima in prossimità del fiume, “deportati” in mezzo al niente, come è capitato a tanti in Italia. Così, in questo contesto pasoliniano, in cui Pasolini aveva davvero vissuto per un po’ di tempo, fu giocata la partita che non avrebbe dovuto mai farsi, una partita che è finita subito dopo l’inizio e che ha segnato la relazione di Andrea con il nostro gruppo.
Avevamo di fronte ragazzi che la terza media l’avevano ripetuta una o due volte, con l’evidente voglia di stabilire chi comandasse tra gli adolescenti del quartiere. Ma a deciderlo non sarebbe stato chi segnava più gol. Credo sia durata più la rissa della partita, visto che alla seconda azione stesi con un pugno un tipo, detto “il Tappo”. Per sfortuna del “Tappo”, indossavo i guanti da portiere, i cui disegni e cuciture si stamparono con precisione sul suo zigomo. Non ricordo molto di quello che è successo dopo, a parte la consapevolezza di avere sopra di me il Tappo, che nel frattempo mi aveva steso in terra, e una ventina di ragazzi che si picchiavano un po’ a caso.
Quello che invece ricordo sono le ronde di ragazzi in motorino che, nei giorni seguenti, si affacciavano in piazza tenendo ben in vista le catene. Le guidava il Tappo, evidentemente in cerca di vendetta, e che, dopo un paio di mesi in cui nessuno di noi si fece vedere in strada, si annoiò e sparì. E noi tornammo alla vita di comitiva, fatta delle prime sigarette, della musica di Vasco Rossi e di pallone sempre tra i piedi.
Ad Andrea andò peggio. Si ritrovò emarginato da noi, che pensavamo di essere finiti in una trappola per rifarsi di come lo trattavamo, ma anche dai suoi compagni di scuola, che non avevano potuto riscattare l’affronto subito dal “Tappo”. Fu talmente emarginato da noi, che non gli parlavamo, anzi non lo salutavamo proprio, e lo escludemmo dall’unica attività che ci aveva uniti: dare quattro calci a un pallone.
Per gli anni seguenti, mentre la vita aveva sciolto la nostra comitiva e io ero uno dei pochi rimasti a vivere nel quartiere, al massimo l’ho degnato di un “ciao”. Ma più spesso, quando lo vedevo da lontano, cambiavo strada. Facevo finta di niente, ma lui lo sapeva: era “un tipo strano”, mica stupido, come ebbe modo di dirmi, una ventina di anni fa. E poi era abituato ad essere ignorato e respinto sin da piccolo. Probabilmente da prima che per noi della piazza diventasse “Andrea il brutto”.
Ecco, io ho visto il disagio psichico di Andrea. L’ho visto in alcune sue manifestazioni e forse ne sono stato anche una piccola parte, contribuendo alla sua emarginazione, facendogli pagare il suo non essere omologabile, trattandolo con la ferocia e l’insensibilità di cui si è capaci in adolescenza.
Ma quando, lavorando per la Fondazione Di Liegro, ho visto le foto scattate da Andrea, di cui ricordavo il cognome (anche se non lo avevo quasi mai chiamato per nome e cognome), ho rivisto il passato, l’adolescenza e la vita, ma con una prospettiva diversa e nuova. Gli scatti realizzati da Andrea nel corso dei laboratori di fotografia della Fondazione guardano la città in modo geometrico, disegnano interazioni tra mezzi di locomozione e contesto urbano, in cui le persone sono sfumate, rappresentano una parte del paesaggio quasi trascurabile, fino a sparire.
Che l’autore di quelle foto fosse davvero l’Andrea che conoscevo, e non un omonimo, l’ho capito nel corso di un incontro della Fondazione su Zoom, durante il lockdown. Ho riconosciuto la voce e il viso di Andrea. Nelle espressioni, nello sguardo e nella voglia – quasi ossessiva – di relazione con gli altri, ho rivisto l’Andrea adolescente e riconosciuto i segni del disagio. Quel disagio mentale che, prima di arrivare in Fondazione, ignoravo e non ero capace di vedere nelle persone.
Alla Festa d’estate che la Fondazione Di Liegro organizza ogni anno in giugno, facendo incontrare utenti, volontari e familiari, e in cui si rivivono le esperienze dei laboratori di arte-terapia e socializzazione realizzati durante l’anno, ho incontrato Andrea. Lui non mi ha riconosciuto subito, perché non ero evidentemente collocabile in un contesto diverso dalle vie del quartiere. E io, stavolta, non ho cambiato strada. Gli sono andato incontro: “Ahò, che non mi riconosci?”.
Abbiamo parlato finché la festa non si è conclusa, passando in rassegna qualche decina d’anni di vicende nostre, delle famiglie e delle conoscenze comuni. Andrea vive ancora lì, coi suoi genitori, nell’appartamento che si affaccia ancora sulla piazza. Una piazza che non è più un teatro o un campo da calcio, ma solo un parcheggio sempre pieno di auto.
Un volontario
Photo by Batın Özen from Pexels: https://www.pexels.com/photo/kids-playing-soccer-in-the-street-7610880/
Ecco alcune foto del secondo incontro del laboratorio di arte-terapia organizzato dalla Fondazione Don Luigi Di Liegro in collaborazione con L'Accademia d'arte di Ripetta, che si è svolto oggi nel cuore di Villa Borghese.
Le docenti dell'Accademia, accompagnate da giovani studentesse e dalle volontarie della Fondazione, hanno guidato i partecipanti in un percorso culturale/educativo e allo stesso tempo terapeutico, fondato sul connubio fra arte e natura.
Tramite l'attività del disegno dal vero, abbiamo riprodotto e osservato l'ambiente circostante andando alla ricerca dei monumenti nascosti, dei busti antichi e delle fontane storiche del Pincio, senza perdere mai lo stupore che contraddistingue colui che è in grado di meravigliarsi.
"Una buona pratica preliminare di qualunque altra è la pratica della meraviglia. Esercitarsi a non sapere e a meravigliarsi. Guardarsi attorno e lasciar andare il concetto di albero, strada, casa, mare e guardare con sguardo che ignora il risaputo. Esercitare la meraviglia cura il cuore malato di chi ha potuto esercitare solo la paura"
Strumenti di intervento per il benessere e la salute mentale dei giovani.
Allenatori sportivi, animatori di gruppi giovanili, maestri d’arte…in una parola Youth Worker!
La necessità di investire sulla formazione e sul riconoscimento delle competenze di questa moltitudine di persone è alla base del Progetto europeo Erasmus+ “Youth Workers Promoting Mental Health (YouProMe)” i cui risultati sono stati presentati questa mattina a Roma. All'incontro, promosso dalla Fondazione Internazionale Don Luigi Di Liegro onlus e dalla ASL RM1 capofila del progetto sono intervenuti tra gli altri: Fabrizio Starace – Coordinatore del Tavolo Tecnico Salute Mentale del Ministero della Salute, Rodolfo Lena – Presidente VII Commissione Sanità, politiche sociali, integrazione sociosanitaria, welfare Regione Lazio, Barbara Funari – Assessore alla Politiche Sociali e alla Salute Comune di Roma, Alessandra Aluigi – Assessore Politiche Sociali Municipio Roma. La giornata e’ stata anche occasione per riflettere insieme ai partner europeo di Inghilterra, Grecia e Romania sulle nuove sfide legate alla salute mentale dei giovani, che mai come in questo momento di pandemia la nostra società si trova ad affrontare.
“Chi soffre di forme di disagio mentale durante l’infanzia e l’adolescenza rischia di associare in età adulta non solo una salute peggiore mentale, ma anche maggiori difficoltà nelle relazioni e nella vita in generale.” dichiara Luigina Di Liegro, Segretario generale della Fondazione Di Liegro “Per questo saper intercettare i segnali di disagio, intervenire in modo tempestivo, efficace e inclusivo sono competenze essenziali per chi lavora insieme ai giovani. Grazie a questo progetto” prosegue “abbiamo avuto la possibilità di condividere e esportare le nostre buone pratiche per la salute mentale; mettere a punto e a disposizione degli Youth worker interventi condivisi, per garantire una crescita piena e armoniosa di tutti i cittadini di domani.”
Lo Youth Worker è un profilo espressamente riconosciuto nell’ambito delle politiche europee per la gioventù e una risorsa preziosa anche nel nostro Paese. Una galassia variegata che coinvolge a vario titolo un numero elevato di persone che, operando lungo il bordo in contesti informali, svolgono un ruolo strategico per il benessere e la salute dei ragazzi: dal settore dello sport, a quello delle attività culturali e artistiche, ricreative, dalle attività di socializzazione e ricreative a all’assistenza sociale e protezione civile. Organizzazioni di volontariato, associazioni, imprese e cooperative sociali, onlus che, senza conteggiare chi mette a disposizione volontariamente le proprie competenze, hanno complessivamente 861.919 dipendenti (dati Istat 2019).
PROGETTO
Avviato già prima della pandemia dalla Fondazione Internazionale Don Luigi Di Liegro e la ASL Roma 1 con partner di Gran Bretagna, Romania e Grecia, il progetto “YouproMe” ha l’obiettivo di offrire agli Youth Worker modelli condivisi e strumenti operativi utili per poter intervenire in modo efficace per il benessere e la salute mentale dei giovani.
Materiali e documenti, gratuiti e scaricabili dal sito www.youpromeproject.eu, a cui attingere per ampliare le proprie competenze, orientarsi sul tema e trovare suggerimenti pratici per attività e interventi sul campo.
Un progetto strategico viste le drammatiche conseguenze psicologichedel Covid sui più giovani, che non hanno avuto la possibilità di vivere serenamente i momenti fondamentali della loro crescita. Dati che richiedono interventi immediati e a diversi livelli, in sinergia tra istituzioni educative e socio-sanitarie.
Rispetto al periodo pre-pandemico i casi di depressione, ansia tra gli adolescenti sono più che raddoppiati (Dati pubblicati da Jama Pediatrics).
Uno studio dell’Ospedale pediatrico Meyer di Firenze segnala che i pazienti con disturbi alimentari sono aumentati di 4 volte rispetto agli anni precedenti (dati giugno 2021).
Le ultime osservazioni condotte dall’Ospedale Bambino Gesù di Roma parlano di un aumento del 30% di tentativi di suicidio e autolesionismo tra i più giovani.
I dati del Dipartimento di Salute Mentale della ASL Roma 1 infine ci confermano che la pandemia ha determinato un aumento medio dell’incidenza dei disturbi psichici in adolescenza del 30%, con punte del 70% nei disturbi del comportamento alimentare. La gran parte di questi sono disturbi della regolazione emotivo-affettiva, prevalentemente autolesionismo e tentativi di suicidio, poli-abuso di sostanze con conseguenti episodi psicotici, comportamenti alimentari instabili, violenza agita e on line; meno frequenti, ma non per questo meno preoccupanti, i disturbi definiti “internalizzanti”: isolamento, inversione ritmo sonno-veglia, hikikomori, ecc..
LE STORIE
“Quando andavo a scuola” racconta Filippo, 18 anni intervistato nell’ambito del Progetto “io e il mio amico Daniele avevamo una grandissima difficoltà nello studio. Sia nel comprendere le spiegazioni dei professori, che pure con noi ce la mettevano tutta, sia nel metterci sui libri. Ogni occasione era buona per scappare. Alla fine” prosegue nel suo marcato accento romano “per recuperare ci hanno costretto a un dopo scuola. Lì c’era un ragazzo poco più grande di noi per aiutarci… non mi ricordo neanche come si chiamava, ma aveva un modo di parlare che faceva venire voglia di studiare. Più a me che a Daniele a dir la verità” conclude ridendo “Lui però non si è mai arreso e, alla fine, siamo arrivati entrambi al Diploma.” Francesca, 27 anni, ha in tasca una Laurea in Allevamento animale ed educazione cinofila, conseguita presso l’Università di Pisa, dove grazie alla tesi sulla “Pet Theraphy” ha rovato il modo per unire il suo amore per gli animali al desiderio di aiutare le persone più fragili. Ma le sue passioni non finiscono qui. “Fin da ragazza ho sempre giocato a pallavolo.” racconta “Per questo, quando mi hanno proposto di partecipare come allenatrice al progetto di avvio alla pratica sportiva nella scuola media del mio quartiere ho accettato con entusiasmo.” Un’esperienza interrotta a causa delle restrizioni dovute al Covid, ma che ha permesso comunque a Francesca di entrare in relazione con molti ragazzi e ragazze tra gli 11 e i 14 anni. “Giocare ha aiutato tutti! Sia i ragazzi più competenti, che quelli meno sportivi, almeno in apparenza. Sono bastati pochi incontri per tirare fuori da ciascuno capacità nascoste.” Prosegue “I più esperti hanno dato qualche dritta ai più insicuri, che hanno conquistato così scioltezza e disinvoltura anche fuori dal campo. Lo stare insieme e il gioco hanno fatto il resto, aiutando i più grandi, me compresa, nell’ascolto e nell’aiuto”.
Don Gabriele è un giovane sacerdote di 32 anni, impegnato nella sua missione come viceparroco in una Parrocchia della periferia romana. “Ogni giorno incontro tanti ragazzi e ragazze: in oratorio, nel gruppo scout di cui sono assistente, in Chiesa. Mi sento a tutti gli effetti un educatore informale e come tale ho sempre bisogno di nuovi strumenti. Al primo posto per me c’è sicuramente il desiderio di condividere le esperienze e confrontarmi con persone competenti, per poter avere più forza e incisività nell’affrontare le problematiche giovanili”. Prosegue parlando della sua esperienza “Ho toccato con mano il disagio che la pandemia ha portato con sé, facendo emergere a volte problemi latenti. Allo stesso tempo c’è nei ragazzi un grande desiderio di vita e di rinascita. Lo stare insieme, avere al fianco adulti con cui entrare in relazioni positive, li ha aiutati e li aiuta a superare gli ostacoli e le barriere (compresi il distanziamento forzato e le mascherine). Il loro potenziale positivo è lì, basta solo dargli sostegno e accompagnamento. Per farlo al meglio e crescere insieme a loro, le occasioni non sono mai abbastanza.”
Silvia ha 24 anni e così tante energie e voglia di fare che è difficile inquadrarla in un’unica definizione. È al tempo stesso una volontaria, un capo scout, una giovane laureata in Psicologia Clinica e si potrebbe continuare ancora per un po’! Tra i tanti motivi che l’hanno portata a interessarsi al progetto “Youprome” sceglie di parlarci della sua esperienza di tirocinio con ragazzi che hanno diversi disagi psichici. “Il progetto nel quale sono impegnata coinvolge ragazzi tra i 14 e i 18 anni in attività informali e socio-riabilitative. Attraverso l’ippoterapia, ad esempio, gli facciamo vivere un’esperienza nuova: per una volta sono loro in prima persona a prendersi cura e a prestare attenzione a un altro da sé. Nella cura del cavallo, nella relazione di affidamento si impegnano, si divertono, si sentono più leggeri.” Qui ho capito quanto sia necessario affiancare la teoria studiata sui libri, con la pratica, il contatto, la relazione.Con il progetto Youprome” spiega “Ho trovato nuove risorse per il mio lavoro: strumenti pensati e sperimentati per ragazzi che in questa fascia di età soffrono di disagio mentale a cui attingere per attività nuove e stimolanti per tutti.”
Registrazione dell'evento
In occasione del convegno Colmare il gap. Strumenti di intervento per il benessere e la salute mentale dei giovani abbiamo parlato con alcuni Youth Worker, che ci hanno raccontato la loro storia.
Don Gabriele è un giovane sacerdote di 32 anni, impegnato nella sua missione come vice-parroco in una Parrocchia della periferia romana.
“Ogni giorno incontro tanti ragazzi e ragazze: in oratorio, nel gruppo scout di cui sono assistente, in Chiesa. Mi sento a tutti gli effetti un educatore informale e come tale ho sempre bisogno di nuovi strumenti. Al primo posto per me c’è sicuramente il desiderio di condividere le esperienze e confrontarmi con persone competenti, per poter avere più forza e incisività nell’affrontare le problematiche giovanili”. Prosegue parlando della sua esperienza: “Ho toccato con mano il disagio che la pandemia ha portato con sé, facendo emergere a volte problemi latenti. Allo stesso tempo c’è nei ragazzi un grande desiderio di vita e di rinascita.
Lo stare insieme, avere al fianco adulti con cui entrare in relazioni positive, li ha aiutati e li aiuta a superare gli ostacoli e le barriere (compresi il distanziamento forzato e le mascherine). Il loro potenziale positivo è lì, basta solo dargli sostegno e accompagnamento. Per farlo al meglio e crescere insieme a loro, le occasioni non sono mai abbastanza.”
Silvia ha 24 anni e così tante energie e voglia di fare che è difficile inquadrarla in un’unica
definizione.
È al tempo stesso una volontaria, un capo scout, una giovane laureata in Psicologia Clinica e si potrebbe continuare ancora per un po’! Tra i tanti motivi che l’hanno portata a interessarsi al progetto YouProMe sceglie di parlarci della sua esperienza di tirocinio con ragazzi che hanno diversi disagi psichici.
“Il progetto nel quale sono impegnata coinvolge ragazzi tra i 14 e i 18 anni in attività informali e socio-riabilitative. Attraverso l’ippo-terapia, ad esempio, gli facciamo vivere un’esperienza nuova: per una volta sono loro in prima persona a prendersi cura e a prestare attenzione a un altro da sé. Nella cura del cavallo, nella relazione di affidamento si impegnano, si divertono, si sentono più leggeri. Qui ho capito quanto sia necessario affiancare la teoria studiata sui libri, con la pratica, il contatto, la relazione. Con il progetto YouProMe - spiega - ho trovato nuove risorse per il mio lavoro: strumenti pensati e sperimentati per ragazzi che in questa fascia di età soffrono di disagio mentale a cui attingere per attività nuove e stimolanti per tutti”.
Francesca, 27 anni, ha in tasca una Laurea in Allevamento animale ed educazione cinofila, conseguita presso l’Università di Pisa
Qui, grazie alla tesi sulla “Pet Theraphy” ha trovato il modo per unire il suo amore per gli animali al desiderio di aiutare le persone più fragili. Ma le sue passioni non finiscono qui. “Fin da ragazza ho sempre giocato a pallavolo - Per questo, quando mi hanno proposto di partecipare come allenatrice al progetto di avvio alla pratica sportiva nella scuola media del mio quartiere ho accettato con entusiasmo".
Un’esperienza interrotta a causa delle restrizioni dovute al Covid, ma che ha permesso comunque a Francesca di entrare in relazione con molti ragazzi e ragazze tra gli 11 e i 14 anni. “Giocare ha aiutato tutti! Sia i ragazzi più competenti, che quelli meno sportivi, almeno in apparenza. Sono bastati pochi incontri per tirare fuori da ciascuno capacità nascoste.” Prosegue “I più esperti hanno dato qualche dritta ai più insicuri, che hanno conquistato così scioltezza e disinvoltura anche fuori dal campo. Lo stare insieme e il gioco hanno fatto il resto, aiutando i più grandi, me compresa, nell’ascolto e nell’aiuto”.
Filippo, 18 anni, e l'incontro con uno Youth Worker
“Quando andavo a scuola - racconta Filippo, 18 anni intervistato nell’ambito del Progetto YouProme - io e il mio amico Daniele avevamo una grandissima difficoltà nello studio. Sia nel comprendere le spiegazioni dei professori, che pure con noi ce la mettevano tutta, sia nel metterci sui libri. Ogni occasione era buona per scappare. Alla fine - prosegue nel suo marcato accento romano - per recuperare ci hanno costretto a un dopo-scuola. Lì c’era un ragazzo poco più grande di noi per aiutarci… Non mi ricordo neanche come si chiamava, ma aveva un modo di parlare che faceva venire voglia di studiare. Più a me che a Daniele, a dir la verità - conclude ridendo - Lui però non si è mai arreso e, alla fine, siamo arrivati entrambi al Diploma”.
Photo by Anete Lusina.
Luca ha un diploma di perito informatico in tasca e tanta voglia di fare la sua parte. Svolge il Servizio Civile Universale nella Fondazione Internazionale Don Luigi Di Liegro onlus nella sua città: Roma.
“Dopo il diploma - racconta con serenità e sempre con il sorriso sulle labbra - non sono rimasto mai con le mani in mano. Ho sempre cercato un impiego, anche a costo di fare piccoli lavoretti, che però non mi davano alcuna soddisfazione né prospettiva futura. Grazie al suggerimento di una amica d’infanzia, ho deciso di informarmi sull’esperienza del Servizio Civile. Il progetto che mi ha coinvolto e colpito di più è stato quello della Fondazione Di Liegro”.
Una scelta non casuale, che conferma essere stata quella corretta. “Il bilancio di questi primi mesi di Servizio Civile? Assolutamente più che positivo - aggiunge Luca con entusiasmo - Sto avendo l’opportunità di conoscere persone con percorsi di vita molto diversi dal mio, di crescere sia a livello personale che professionale, sperimentando ambiti completamente nuovi rispetto al percorso di studi che ho svolto. Soprattutto - ci dice con orgoglio – sento di poter essere utile e d’aiuto a persone che vivono una condizione di disagio. Non ho paura dell’impegno e non mi tiro indietro. E tutto questo, mi fa sentire bene!”
L'ultima volta che i Briganti pizzicati, il gruppo formato dai partecipanti del laboratorio di musica e terapia, si era esibito sul palco della Sala Accademica del Conservatorio Santa Cecilia era il giorno di San Valentino del 2020. "Pochi giorni prima che, per tutti noi, il mondo cambiasse", ha ricordato la presentatrice della serata, la giornalista Gabriella Facondo.
Ora, 22 mesi dopo, torna La Musica Che Tutto Cambia.
Il concerto ha rappresentato dunque il modo per riannodare quel filo che non si è mai spezzato, perché la Fondazione Di Liegro, così come il Conservatorio Santa Cecilia, non si è mai fermata. - ha aggiunto Gabriella Facondo - Protagonista la musica, che arriva quasi sempre prima e più lontano delle parole. E, quando ci attraversa, lo fa senza mai lasciarci identici a noi stessi".
La serata al Conservatorio di Santa Cecilia diventa l'occasione di ricordare quella strada che Don Luigi Di Liegro ha coraggiosamente scelto di percorrere.
Nella Converti, Consigliera dell’assemblea capitolina, nel leggere i ringraziamenti del sindaco di Roma, Roberto Gualtieri, e dell'Amministrazione capitolina, ha ricordato come la pendemia ci abbia "messi tutti a dura prova, e purtroppo continua a farlo, rendendoci più distanti e soli e causando e alimentando le fragilità". Ma è stato grazie a tutti quelli, come la Fondazione Di Liegro, che invece di fermarsi hanno garantito ascolto, luoghi di accoglienza e supporto per le famiglie e le persone vulnerabili, "che la nostra comunità è riuscita a resistere" a una pandemia che ha provato a piegarla. "Sarà compito delle istituzioni non solo riconoscere il vostro prezioso lavoro ma impegnarsi per creare nuovi strumenti per non lasciare mai nessuno indietro. Ci aspetta un lavoro duro - scrive ancora il sindaco Gualtieri - che sono certo non ci spaventerà: quello di rendere Roma una città più inclusiva e giusta".
"Alimentare il senso di appartenenza a una comunità, rafforzare i legami, fare in modo che nessuno sia lasciato indietro sono da sempre i compiti della Fondazione Di Liegro", ha affermato il presidente padre Sandro Barlone, nel corso della serata. "Il concerto dei Briganti pizzicati rappresenta una tappa importante, un momento in cui riconosciamo il lavoro fatto da tanti: famiglie, operatori e volontari. In cui guardiamo con soddisfazione - ha aggiunto il presidente della Fondazione Di Liegro - persone che oggi riguadagnano i momenti di una vita sociale dalla quale, per circostanze che non dipendono da loro, sono stati marginalizzati. Ora attraverso la musica, un linguaggio che va oltre, fa stare accanto e aggrega. Come ogni forma di comunicazione - ha concluso Barlone - esprime forme di vicinanza che altrimenti non saremo capaci di vivere".
I laboratori di teatro e di arte sono stati protagonisti del recente incontro dedicato alla Festa d'Estate, evento di chiusura delle attività 2020-2021 della Fondazione Di Liegro.
Non sono stati mesi facili, ma nonostante la pandemia siamo riusciti a realizzare il consueto corso di formazione al volontariato “Volontari e famiglie in rete per la salute mentale” e a portare avanti i laboratori di arte-terapia e socializzazione che da sempre caratterizzano l’azione della Fondazione .
In occasione dei saluti, è stato possibile visitare la Mostra d’arte del laboratorio artistico-creativo realizzato in collaborazione con l'Accademia di Belle Arti di Roma.
"NELLA NATURA ASCOLTO" - IL VIDEO DEL LABORATORIO ARTISTICO-CREATIVO
È stato poi proiettato il video “Tutto andrà bene”, lo spettacolo del nostro laboratorio teatrale. Per una volta, complici le regole di distanziamento, i nostri utenti e volontari sono andati in scena di fronte a una telecamera, invece che dal vivo. Emozioni e divertimento sono comunque assicurati, grazie alla dedizione di tutti nel preparare lo spettacolo. E all'aiuto e l'ispirazione di un amico davvero speciale: l'attore Giulio Scarpati, già interprete della serie tv, dedicata a Don Luigi Di Liegro, L'uomo della carità.
Nel laboratorio di pittura, Gino usa i colori con confidenza e senza risparmio, quasi esageratamente. Cospargendo anche il suo volto, le mani e le braccia, che utilizza come estensione del foglio di carta.
Anche il suo debutto nel laboratorio di teatro lascia stupiti. La scelta dei brani da interpretare durante le prove riflette la profondità del suo mondo interiore: interagisce con gli altri partecipanti e con i volontari, come se fossero colleghi di arte da sempre, e stabilisce da subito un particolare rapporto di fiducia con il regista.
Gino ha 38 anni.Due anni fa, gli operatori del Centro di Salute Mentale, che lo seguono nel suo percorso terapeutico-riabilitativo, gli consigliano di frequentare le attività organizzate dalla Fondazione Di Liegro.
Come detto, Gino dimostra subito una predisposizione naturale nell’utilizzare il linguaggio artistico. Attento, partecipa assiduamente a tutto quanto avviene. Il suo entusiasmo è incontenibile, contagioso, tanto da farlo divenire un catalizzatore del gruppo.
Gino è una persona affettuosa e le sue emozioni sono dirompenti: i baci e gli abbracci che dispensa quando ci si incontra rendono fisico e tangibile quello che prova.
Ma l’entusiasmo nello stare insieme ha come rovescio della medaglia un forte senso di solitudine. E quando G. si ritrova a casa da solo, il malumore e i cattivi pensieri rischiano di prendere il sopravvento.
La pandemia
La Fondazione Di Liegro è un luogo di relazioni e scambio per tutte le persone che la frequentano. Gli incontri settimanali per i laboratori, i corsi di formazione o i gruppi di auto mutuo aiuto sono appuntamenti fissi; e per alcuni partecipanti la Fondazione è diventata un punto di riferimento, uno dei pochi insieme al servizio sanitario e alla famiglia.
La sospensione delle attività in presenza, con la chiusura della sede durante la pandemia per il COVID-19, ha rappresentato per tutti un cambiamento importante: la mancanza di un luogo di incontro è stata forte.
Per qualcuno, più che per altri, l’interruzione degli incontri e l’impossibilità di incontrarsi di persona e salutarsi con un bacio e un abbraccio sono stati un evento imprevisto, che ha scosso un fragile equilibrio.
Questo è proprio ciò che è successo a Gino.
Gino, più degli altri colleghi di corso, ha risentito del lockdown e della mancanza di quei momenti, sviluppando acute manifestazioni di insofferenza e crisi depressive durante la pandemia. E se nei primi giorni il contatto telefonico ha permesso di contenere in qualche misura il suo disagio, con il prolungarsi della quarantena e dell’isolamento non è stato più sufficiente.
Gino. non ha più sopportato la sua angoscia e ha chiamato gli operatori della Fondazione dicendo che stava molto male e che temeva di non riuscire a farcela. Da questo momento. è stato prima ricoverato presso un servizio di emergenza e poi in una struttura residenziale.
Ascolto e sostegno alla cittadinanza
La Fondazione durante il periodo di quarantena ha avuto il principale obiettivo di rimanere in contatto con la propria comunità di utenti, volontari e familiari e di garantire un servizio di ascolto e sostegno alla cittadinanza attraverso il Servizio di Orientamento e Supporto Sociale per la Salute Mentale SOSS.
Sin dai primi giorni di pandemia abbiamo stabilito degli appuntamenti telefonici per monitorare gli effetti che la situazione emergenziale e di isolamento imposto stava avendo sulle persone più fragili. La solitudine e la sospensione di una routine, come anche di una frequentazione più assidua dei servizi di salute mentale, è stato destabilizzante per gli utenti e i familiari in particolare.
L’utilizzo dei dispositivi digitali ci è stato di grande aiuto nel mantenere il contatto con partecipanti, familiari e volontari, poiché abbiamo quasi subito trasportato gli appuntamenti delle nostre attività sulle piattaforme digitali e la maggior parte delle persone, avendo uno smartphone o un pc, ha partecipato agli appuntamenti. Quando questo non è stato possibile, abbiamo mantenuto un contatto “analogico” attraverso chiamate telefoniche.
Gli incontri on line hanno dato la possibilità, anche se mediata da uno schermo, di vedersi e parlarsi e di continuare le attività dei laboratori.
Questo è ciò che è successo anche con G., con cui siamo riusciti a rimanere in contatto durante tutte le fasi del suo ricovero, sia in ospedale che nella struttura residenziale, riuscendo a coinvolgerlo nei nuovi appuntamenti digitali.
Questa nuova modalità ha rappresentato una sfida per tutti noi, una sfida che però è stata l’occasione per molti di sperimentarsi con qualcosa di nuovo, acquisendo una dimestichezza con questi mezzi e nuove competenze tecnologiche. Anche gli operatori e i volontari si sono reinventati, hanno utilizzato nuove forme per rimanere in contatto e supportare gli utenti anche a distanza.
Oggi Gino sta un po’ meglio. Ogni giorno si fa sentire per aggiornarci sul suo stato di salute e la domanda che conclude sempre la sue telefonate è: “Quando riprendono i laboratori? Mi mancano, mi mancate!”.
Per la Fondazione questi mesi di pandemia sono stati uno stimolo a far sentire che la comunità di cui facciamo parte continuava a essere presenteaccanto a loro e ci ha dimostrato che, a volte, un limite come gli incontri on line può trasformarsi in un’inaspettata opportunità.
Come si possono affrontare oggi i problemi della droga, del policonsumo di sostanze, delle nuove dipendenze, ad esempio, quelle tecnologiche tra i giovani e giovanissimi?
I comportamenti giovanili estremi, tra cui quelli citati, costituiscono risposte compulsive a problemi che richiedono risposte complesse che dovrebbero segnare il passaggio alla maturità. Dal mio punto di vista c’è il problema generale della dipendenza che è sostanzialmente una “crisi della presenza” o anche una forma di “anomia diffusa”. Due facce della stessa medaglia che rimandano a un sentirsi permanentemente fuori posto, dall’avere un bisogno compulsivo di sensazioni forti per accorgersi di esserci. Tra queste risposte includo anche la dipendenza da ideologie e da capi carismatici, il conformismo ossessivo e persino le sindromi di ritiro sociale che portano all’estremo questo sentirsi fuori posto. Tutte queste situazioni rimandano ad un unico problema: l’assenza di comunità, ossia l’assenza di legami significativi, di relazioni in cui la giovane persona sente di avere un ruolo, sente che la sua esistenza ha un significato, può sentire il suo esserci perché c’è qualcuno che condivide con lei un sogno, un desiderio.
Quale strategia devono avere oggi i servizi per affrontare il problema del disagio giovanile?
Qualsiasi servizio, a cominciare da quello scolastico, dovrebbe ripartire non dal disagio giovanile, ma dal “disagio della civiltà” dalle forme contemporanee che assume il disagio esistenziale, il modo dell’animale uomo di essere in una società organizzata. Il processo di ominizzazione o processo di incivilimento, anche nelle forme di cultura più rarefatta, è basato comunque su processi che riguardano il corpo e le sue espressioni emozionali. Il disagio della civiltà è innanzi tutto la difficoltà a collocare il sé corporeo in un processo sociale che nelle sue espressioni dominanti nega tutti i fenomeni legati al corpo e li tratta tutti come oggetto di consumo e di un ipercontrollo preteso razionale. Cominciare da qui significa lavorare con i giovani a partire dalla condivisione di un disagio profondo, a partire dal fatto che gli adulti e gli operatori dimostrino con la propria esistenza e resistenza di saper essere se stessi nonostante tutto, nonostante “ogni evidenza contraria” tesa alla svalutazione dell’umano. Qualsiasi servizio alla persona dovrebbe partire dalla condivisione, dal tentare di costruire comunità, dal curare insieme un bene comune che in questo caso è il benessere psichico dei giovani e degli operatori incaricati di interagire con loro.
Per affrontare le dipendenze come si può strutturare un lavoro in rete che sia organico e realmente integrato tra i servizi e le altre risorse presenti sul territorio: scuole, associazioni di volontariato, parrocchie, cooperative sociali, datori di lavoro?
Per un vero lavoro in rete occorre fondare un’alleanza a monte dei servizi. Occorre riconoscersi insieme in una comunità territoriale prima ancora che in una comunità professionale. Le reti finora sono state intese come una federazione di repubbliche indipendenti, con tutti i limiti ed i fallimenti del caso. Bisogna invece partire dalla condivisione di un bene comune che in questo caso è la rete delle relazioni comunitarie. Il popolo è entità concreta e non ideologica, quando esiste la cura reciproca, quando gli specialismi dialogano intimamente con interlocutori non specialistici. L’essenza di una vera comunità è il dialogo permanente e paritario tra persone che svolgono una funzione specializzata e comuni cittadini che non sono destinatari ma interlocutori di chi svolge un servizio. Ogni servizio ha una sua logica specifica legata alle tecniche che deve usare in relazione alla propria missione , ma tutti i servizi devono operare come parte di una comunità e come fondatori di quella comunità. Finché i servizi operano come avamposti dello Stato in territori non toccati dalla grazia, le reti non funzionano e se funzionano lo fanno a difesa di sé - di una identità professionale fine a se stessa - e non a sostegno della comunità di vita.
Da dove partire per avviare percorsi di recupero di giovani e giovanissimi che vivono forme di dipendenza e di disagio sociale?
Bisogna che in ogni quartiere, in ogni unità territoriale per la quale si possa ipotizzare uno spazio per relazioni comunitarie, ci sia un centro di promozione della socialità che non sia solo giovanile, ma riguardi tutti i cittadini che sentono il desiderio di stabilire relazioni di comunità, un luogo che promuova iniziative e non si limiti ad aggregare, un luogo cin cui si possa realizzare un incontro autentico tra le generazioni. In questo “brodo di coltura” comunitaria possono operare servizi specializzati che aiutano e sostengono i giovani nel trovare la strada della significanza.