Il tema della salute mentale a Roma è stato recentemente oggetto di una ricerca realizzata dalla Fondazione Internazionale Don Luigi Di Liegro con il sostegno della Fondation d’Harcourt e in accordo con le Aziende Sanitarie Locali (ASL) - e dei Dipartimenti di Salute Mentale (DSM) della città metropolitana. I risultati dell’indagine, riportati nel volume “Reti di cura e disagio psichico” (Palombi Editori, 2017), sono qui presentati in sintesi. La ricerca ha indagato i bisogni di utenti e famiglie, il loro rapporto con i Centri di Salute Mentale (CSM) e il funzionamento di questi, interpellando tutte le parti in causa: utenti, familiari, operatori, responsabili dei CSM e dei DSM, presidenti dell’associazionismo volontario.
L’indagine, oltre a coprire un vuoto conoscitivo in materia, voleva richiamare l’attenzione di cittadinanza e istituzioni sulla salute mentale in una fase di grande difficoltà dei servizi territoriali a seguito della severa spending review, aggravata nel Lazio dal piano di rientro dei disavanzi in sanità. Nel corso della ricerca era altresì in atto la fase cruciale dell’accorpamento delle ASL romane (ridotte da 5 a 3) che ha previsto anche una più ampia configurazione del DSM (inclusivo della Tutela Salute Mentale e Riabilitazione in età evolutiva – TSMREE – e delle Dipendenze) e di nuovi compiti (gestione degli ospiti delle Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza – REMS – provenienti dagli ex Ospedali Psichiatrici Giudiziari e la definitiva attuazione della psichiatria penitenziaria). La ricerca ha realizzato il suo obiettivo conoscitivo attenendosi con rigore a parametri di metodo e a criteri di campionatura degli utenti e utilizzando più strumenti di raccolta dati. Una volta delimitato l’universo degli utenti dei cinque Dipartimenti di Salute Mentale (delle ex-ASL), che è stato quantificato in 15.051 unità1, sono state identificate le variabili di estrazione del campione di 500 unità – 100 per ciascun DSM – rappresentativo di tale universo. Le variabili con cui è stato stratificato il campione sono: il territorio, con interviste agli utenti di tutti i 24 CSM della città metropolitana e delle due Unità di intervento sui giovani (Colpo D’Ala e PIPSM); la classificazione diagnostica, distintiva degli utenti con disturbi gravi e con disturbi comuni o DEC2, e l’età con la distribuzione degli utenti in tre fasce anagrafiche: adulti-giovani (18-35 anni), adulti-maturi (36-56 anni) e adulti-anziani (ultra56enni). La ricerca ha inoltre inquadrato, sul piano prevalentemente qualitativo e soggettivo, i principali aspetti del fenomeno entrando nel merito dei bisogni degli utenti, della condizione e dei vissuti delle famiglie, analizzando il rapporto dei primi e delle seconde con i CSM, verificando processi operativi e capacità di risposta di questi e raccogliendo elementi di valutazione in grado di evidenziare aspetti di criticità, ma anche di innovazione. Inoltre ha focalizzato l’attenzione sui nuovi processi partecipativi delle associazioni dei familiari e del volontariato impegnato nel settore. Tutto ciò nella consapevolezza che una conoscenza più approfondita del fenomeno aiuti la riflessione e faciliti ipotesi di cambiamento.
1 L’universo di riferimento è costituito dagli utenti prevalenti dei CSM (attivi negli ultimi 3 mesi) in età adulta, con una diagnosi in cartella ed esclusione di chi si rivolge ai servizi per “accertamenti medico-legali”. Essi inoltre dovevano essere noti al Servizio e in trattamento da almeno 12 mesi e da non più di 20 anni (prima presa in carico non anteriore al 31.12.1996).
2 I codici di classificazione dei disturbi sono quelli che fanno riferimento all’IDC IX, sotto il codice 300 vi sono i disturbi più gravi e sopra quelli meno gravi e i disturbi emotivi comuni (DEC).
In Italia, la legge di riforma dell’assistenza psichiatrica – la n. 180/1978, inserita nello stesso anno nella Legge 833 istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale – ha radicalmente cambiato lo scenario del trattamento delle persone con disagio e disturbi psichici. Si è spostato il baricentro dell’assistenza dall’ospedale psichiatrico al territorio, e sono stati stabiliti una serie di servizi integrati – attraverso un’organizzazione dipartimentale – che devono rispondere ai bisogni complessi e ai percorsi di cura e riabilitazione/inclusione dell’utenza senza trascurare la prevenzione/promozione della salute mentale. La legge prevedeva, tra i suoi obiettivi, la creazione di Centri di Salute Mentale (CSM) su territori definiti affiancati da strutture diurne e da piccole comunità residenziali a diverso grado di protezione. Ha altresì previsto apposite unità psichiatriche all’interno degli ospedali generali (SPDC- Servizio Psichiatrico Diagnosi e Cura) con un massimo di 15 posti letto ciascuna, per ricoveri di pazienti in stato di patologia acuta non diversamente affrontabile. Tuttavia la riforma, che è stata vista con interesse da molti Paesi che ad essa si sono ispirati, è stata attuata in modo parziale e disomogeneo in Italia, in ragione delle profonde differenze nel sistema dei servizi delle diverse realtà geografiche, tanto più che è stato demandato alle Regioni l’onere di elaborare pratiche dettagliate per tradurre organizzativamente i principi generali della legge. Tale difficoltà ha indotto il Ministero della Sanità ad approvare nel 1994 il Progetto Obiettivo (P.O.) “Tutela salute mentale”, in modo da rendere omogenea su base nazionale l’applicazione della Riforma psichiatrica attraverso un sistema di cura territoriale e di comunità, il cui punto nodale è il Centro di Salute Mentale (CSM). Tale P.O. ha altresì collegato gli Ospedali Psichiatrici – chiusi a nuovi ingressi ma di fatto abbandonati a sé stessi – ai servizi del territorio, con progetti di dimissione dei ricoverati nelle strutture alternative. Il loro definitivo superamento è avvenuto ovunque solo alle soglie del 2000 e con l’impulso di un secondo Progetto Obiettivo “Tutela della salute mentale 1998-2000” che ha previsto anche un sistema informativo per il monitoraggio su servizi, utenza e prestazioni. Con esso sono stati precisati alcuni standard di cura da conseguire, quali: la promozione della salute mentale nell’intero ciclo di vita, anche all’interno dei programmi di medicina preventiva e di educazione sanitaria, la prevenzione primaria e secondaria dei disturbi mentali, la ricostruzione del tessuto affettivo, relazionale e sociale delle persone affette da disturbi mentali (prevenzione terziaria), la riduzione dei suicidi e dei tentativi di suicidio nella popolazione a rischio. Le strategie indicate per il raggiungimento di tali obiettivi prevedevano: – il ruolo più attivo dei CSM nella prevenzione, attraverso la promozione di salute mentale nella comunità; – la costruzione di una rete integrata di assistenza in grado di coinvolgere le Cure Primarie e i servizi sociali; (si chiamano Cure Primarie quelle della medicina di base e dei servizi del Distretto) – la formulazione di piani terapeutici individualizzati; la costituzione di team multidisciplinari per la presa in carico dei casi più gravi e complessi; – l’erogazione di trattamenti basati sulle evidenze scientifiche; il coinvolgimento delle famiglie nel percorso terapeutico; – l’attuazione di programmi specifici per i pazienti complessi scarsamente aderenti al progetto di cura; – la promozione di gruppi di auto-mutuo-aiuto; – l’implementazione di programmi di sensibilizzazione esterni volti alla popolazione generale per ridurre lo stigma e aumentare l’accesso ai servizi.
Pur con l’apporto di questo secondo Progetto Obiettivo il processo di trasformazione e organizzazione dei servizi ha continuato ad essere lento e irregolare tanto che nel 2012 solo metà delle regioni italiane aveva un Piano regionale per la salute mentale (diventato obbligatorio dal 1992) e quasi mai strutturato in base ai dati epidemiologici rilevati sulle comunità interessate. Pertanto malgrado lo sviluppo comune del modello organizzativo basato sul DSM è rimasta una notevole variabilità regionale nell’erogazione dei servizi. Nel frattempo è intervenuta l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) con il “Piano d’Azione per la Salute Mentale 2013-2020” che riconosce il ruolo essenziale della salute mentale nel raggiungimento della salute per tutte le persone e prevede, tra i suoi obiettivi principali, la fornitura di servizi integrati di salute mentale, di assistenza sociale territoriale, l’attuazione di strategie di promozione e di prevenzione insieme a sistemi informativi a sostegno delle evidenze scientifiche e della ricerca per il miglioramento continuo della qualità dei servizi e loro innovazione. Sulla base di questa spinta la Conferenza Unificata dei Presidenti delle Regioni e delle Province Autonome ha approvato nel 2013 il “Piano di Azioni per la Salute Mentale” (PAN-SM) che prevede la definizione degli obiettivi di salute per la popolazione, delle azioni e degli attori nonché la definizione di criteri e indicatori di verifica e di valutazione dei risultati. Il documento fa riferimento ad aree omogenee di intervento e offre indicazioni metodologiche utili a delineare una progettualità innovativa. In particolare l’accordo Stato-Regioni del 2014 individuava i cosiddetti “bisogni prioritari”, su cui elaborare i percorsi di presa in carico – diagnostico terapeutici assistenziali (PDTA) – in riferimento all’area dei disturbi gravi, persistenti e complessi e all’area dei disturbi dell’infanzia e adolescenza. Viene dedicata attenzione anche all’integrazione fra i servizi per assicurare la continuità delle cure. Il Piano ha avuto anche il duplice merito, di ridefinire il concetto di Livelli essenziali di assistenza (LEA) in salute mentale, declinandolo in termini di “percorso di presa in carico e di cura esigibile” e incoraggiando, così, il superamento dell’approccio “prestazionale” – e di designare il Ministero della salute insieme alle Regioni quali responsabili della verifica periodica della realizzazione degli obiettivi attraverso l’implementazione e l’utilizzo di sistemi informativi, a fronte delle carenze nella raccolta sistematica di dati epidemiologici. A seguito di ciò nel 2016 è stato ufficialmente presentato dal Ministero della Salute il primo “Rapporto Salute Mentale” (RSM) previa raccolta dei dati relativi all’offerta territoriale, all’assistenza ospedaliera e residenziale e all’attività complessiva dei Dipartimenti di Salute Mentale. La Società Italiana di Epidemiologia Psichiatrica (SIEP)3 ha così potuto evidenziare anche i punti di forza e di debolezza dei sistemi di cura per la Salute Mentale di ciascuna Regione.
3 Per una sintesi dell’opera di sistematizzazione delle informazioni condotta dalla SIEP cfr. (a cura di) Starace F., Baccari F., Mungai F. (2017), La Salute Mentale in Italia – Analisi delle strutture e delle attività dei Dipartimenti di Salute Mentale. Quaderni di Epidemiologia Psichiatrica N. 1/2017.
Emerge così che nel 2015 sono attivi in Italia 183 Dipartimenti di Salute Mentale (DSM), 1 ogni 277 mila abitanti. La rete dei servizi previsti dalla legge di riforma e dislocati sul territorio ammonta a 3.791 unità (Tab. 1). Sono i Centri di Salute Mentale (29,4%), che fungono da perno e regia della psichiatria di comunità. Essi interagiscono con le strutture residenziali (il 48,5%) distinte al loro interno per la diversa intensità assistenziale e con le strutture semiresidenziali (22,1%) rappresentate da centri diurni e, in misura ridotta, dai day hospital. Vi sono poi le strutture di degenza ospedaliera con 10.5 posti letto ogni 100 mila abitanti di cui il 76,1% pubblici, gli unici disponibili in 12 regioni su 21. Il numero di letti negli appositi reparti ospedalieri (SPDC) è per popolazione il più basso in Europa4 con una degenza media di 12.6 giorni, che risente degli oltre 8.700 ricoveri in trattamento sanitario obbligatorio (TSO), pari a 17.3 per 100 mila abitanti. L’utenza complessivamente trattata dai servizi di salute mentale nell’anno 2015 è stata di 777.035 unità, e nel 47,6% era costituita da soggetti al loro primo contatto con essi. Le prestazioni erogate per utente sono state 13.5. Le persone conteggiate presso le strutture residenziali sono 29.733, mentre è di poco inferiore il numero di utenti registrati presso le strutture semiresidenziali (28.809) come rivela l’analogo tasso (Tab. 1). Il numero di letti residenziali oggi stimati (25.720 pari a 5.1/10.000) rivela un dato in crescita rispetto a quello rilevato da una precedente indagine5. La dotazione complessiva di personale dipendente è pari a 29.260, con un rapporto di 58 operatori per 100 mila abitanti, scarsamente adeguata a sostenere la domanda che affluisce ai servizi (in media 1 operatore ogni 26 utenti nel 2015) e nettamente al di sotto dello standard di 1 operatore ogni 1.500 abitanti indicato nei due Progetti Obiettivo. Se si attuasse tale standard gli addetti dovrebbero essere in numero di 33.800 e alla loro carenza le ASL cercano di porre rimedio facendo ricorso alle Cooperative di servizio che coadiuvano per alcune funzioni i servizi di salute mentale.
Nel nostro paese anche la spesa sanitaria per la salute mentale si mantiene al di sotto della soglia minima prevista del 5% della spesa sanitaria: è stata di 3,7 miliardi di euro (73.8 euro a residente) e rappresenta il 3,5% della spesa sanitaria complessiva, aliquota più bassa del 10% di quella che si registra in Paesi come Regno Unito, Francia e Germania e in buona parte destinata all’assistenza residenziale (oltre il 50%). I dati riferiti della regione Lazio nel 2015 fotografano una situazione di maggior penuria di servizi e di risorse umane66 rispetto a quella nazionale. I Dipartimenti di Salute Mentale sono 12 (1 ogni 410 mila abitanti), mentre la rete dei servizi, costituita dai Centri di Salute Mentale, dalle strutture semiresidenziali e residenziali, è di 256 unità. Di queste il 28,5%, è dato dai CSM, al di sotto dell’indice nazionale e ancor più lo sono le strutture residenziali e semiresidenziali. Notevole è anche il gap che si registra rispetto al Paese circa i posti letto di degenza ordinaria (7.3/100 mila ab. vs i 10.5) e per dotazione di personale dipendente (45/100 mila abitanti rispetto ai 57.7) per cui vi sono 2.213 operatori invece dei 3.281 “previsti” dal rapporto di 1 addetto ogni 1.500 residenti. La regione è al di sotto del dato nazionale anche per quanto concerne l’incidenza % del costo dei servizi di salute mentale sulla spesa sanitaria complessiva (3,3%). Nel 2015 gli utenti trattati dai servizi di Salute Mentale della regione sono stati 68.217, con un tasso pari a 1.386/100.000 ab. (a fronte di 1.594 registrato nel contesto nazionale) e i nuovi utenti (primo contatto) costituivano il 64% dei pazienti in carico nell’anno, proporzione ben superiore a quella registrata a livello nazionale a significare un buon accesso ai servizi e un maggior turn over dell’utenza. Il Lazio si distingue anche per una crescita significativa di incidenza di casi con “schizofrenia e altre psicosi funzionali”, ad attestare un orientamento maggiore a filtrare l’utenza privilegiando la presa in carico dei casi più gravi e complessi. Le prestazioni erogate sono state 721.962, ovvero 11.6 per utente, anche in questo caso inferiori in media al valore nazionale (13.5). Variazioni significative di segno meno si riscontrano rispetto a tutti gli indicatori di ricovero nei reparti ospedalieri di Psichiatria (con i vari tassi di dimissioni, degenza media, numero TSO), al contrario degli indicatori sulla presenza e andamento dell’utenza nelle strutture residenziali. In definitiva, i dati sui servizi di Salute mentale della Regione Lazio in comparazione ai valori di riferimento nazionale mostrano non poche difformità: come si evince dalla Tab. 1, alle maggiori carenze nell’offerta di CSM, centri diurni, strutture residenziali e posti letto in SPDC, con i relativi ricoveri e una più ridotta durata media delle degenze, si palesano due anomalie regionali per i valori in positivo circa le riammissioni in ospedale entro i 30 giorni (+13,1%) – a fronte di ricoveri mediamente più brevi – e l’incremento dell’utenza nelle strutture residenziali (+66,1%). Quest’ultimo dato fa «ipotizzare che una quota rilevante della domanda di salute mentale, in presenza di carenze dei servizi, sia intercettata e assorbita dall’offerta residenziale»7. Infine, va sottolineata la carenza peculiare dei servizi di salute mentale della regione Lazio, ovvero la dotazione del personale dipendente (-22,1% rispetto al dato nazionale, anch’esso deficitario) con un gap di oltre 1.000 unità rispetto al parametro introdotto con i due Progetti Obiettivo sulla salute mentale.
Tab. 1. Confronto tra i dati nazionali e quelli della regione Lazio per una serie di indicatori su strutture e attività di salute mentale
*Gli abitanti sono i residenti in età uguale o superiore a 18 anni. Fonte: elaborazione su dati Rapporto Salute Mentale del Ministero della Salute 2016
6 (a cura di) Starace F., Baccari F., Mungai F., La salute mentale in Italia, op. cit.
567 utenti intervistati – rappresentativi per territorio, diagnosi, fascia di età, sesso ed anzianità di trattamento – dopo aver ripercorso l’excursus assistenziale hanno fornito una serie di dati sulla loro condizione di vita ed esperienza con i servizi e le valutazioni su questi. Il loro profilo prevalente è quello di genere femminile, in età prossima ai 50 anni, diagnosi di disturbo grave affiorato nell’epicentro della giovinezza interrompendo talvolta gli studi – ma il dato dei laureati è superiore a quello che si riscontra tra la popolazione generale – e soprattutto inibendo il progetto di vita matrimoniale e compromettendo largamente il percorso professionale (Tab. 2).
Tab. 2. Profilo degli utenti intervistati (567)
Fonte: indagine 2016, Fondazione Internazionale Don Luigi Di Liegro
Non trova conferma quanto è nell’immaginario collettivo, che tende a sovrapporre la persona alla sua malattia, rappresentando bisogni, desideri, abitudini di vita degli utenti diversi o distanti dalla normalità (Tab. 3). Essi mettono in atto i comportamenti usuali e propri della vita di ognuno, come fare la spesa, andare in tram o fare un’attività fisica. Ad essi piace soprattutto stare con gli amici e dedicarsi ad un hobby e la loro fruizione di attività ed eventi ricreativi e culturali non è diversa da quella che si riscontra nella popolazione generale. Come tutti i cittadini manifestano desideri e aspirazioni (mentre un quinto appare rassegnato o abulico). La loro partecipazione attiva ad associazioni di vario tipo è simile a quella di tutti e dimostrano di avere una discreta competenza nelle abilità che denotano autonomia e competenze sociali (cura della salute, del corpo, del vestiario..).
Tab. 3. Attività della vita quotidiana (su 567 utenti)
Fonte: indagine 2016, Fondazione Internazionale Don Luigi Di Liegro
Il rapporto con i servizi è scandito da appuntamenti che nella maggior parte dei casi hanno una frequenza mensile o ancora più diradata, salvo per chi usufruisce, ma meno di un tempo, di colloqui psicologici, di psicoterapie individuali o di gruppo. Lo psichiatra è l’operatore che assiste il maggior numero di utenti con colloqui, visite e controllo farmacologico, a seguire vengono lo psicologo e l’infermiere che può svolgere più mansioni. Vengono realizzate anche varie attività riabilitative presso il servizio o l’annesso Centro Diurno – con frequenza plurisettimanale in questo caso – con uno scarso apporto di operatori addetti alla riabilitazione. Le attività occupazionali o laboratoriali e gli strumenti che avvicinano gli utenti al mondo del lavoro (borse lavoro, tirocini, progetti di inserimento) hanno una diffusione piuttosto ridotta. Così come lo sono, rispetto alle necessità, i sussidi economici e le prestazioni dell’assistenza sociale, in regresso negli ultimi anni. Lo stesso si può dire delle visite a domicilio che, come verificato nell’excursus assistenziale degli utenti, occupano un posto marginale, cosa che conferma la mutazione tendenziale del servizio da centro di irradiazione degli interventi sul territorio (“socio-ambientali”) a luogo di prestazioni ambulatoriali. Meno della metà di essi ritengono invece di aver ricevuto dagli operatori la proposta di un progetto terapeutico-riabilitativo, previsto per gli utenti gravi, ma di cui non vi è consuetudine alla formalizzazione dalle équipe dei servizi romani. Gli utenti valutano in generale positivamente l’atteggiamento di cura degli operatori perché centrato sul rispetto della persona e la correttezza in termini di umanizzazione dell’intervento (riconoscimento della dignità, riservatezza, atteggiamento non giudicante).
Gli utenti dichiarano per lo più anche adesione al servizio in termini di regolarità nell’assunzione dei farmaci, intento a relazionarsi positivamente con gli operatori e collaborazione al trattamento garantendo regolarità/puntualità. Nella valutazione del servizio i giudizi meno favorevoli riguardano le visite domiciliari (poche), la relazione degli operatori con i familiari (scarsa contestualità di presa in carico) e l’interazione con gli altri utenti. Quello che più conta per l’utente è la buona relazione con l’operatore e di «sentirsi seguito». Due aspetti di insoddisfazione, che hanno a che fare con il deficit di risorse umane dei CSM, affiorano ormai palesemente tra gli utenti più attenti ed esigenti: gli appuntamenti più diradati e i più ridotti tempi di colloquio con gli operatori. Non a caso alla domanda su cosa il servizio potrebbe fare di più per loro, essi rispondono con «visite regolari» o «più frequenti» o di «essere seguiti più assiduamente». Per cui vi sono utenti che hanno l’impressione di non sentirsi «presi in considerazione», di non essere trattati con la dovuta attenzione e «dedizione» dagli operatori. Tra le cose che piacciono meno ad essi del servizio vi sono i problemi di segreteria, di accoglienza e di comunicazione telefonica con gli operatori o l’impossibilità di incontrarli al bisogno anche fuori appuntamento. Le voci esplicitamente critiche sono una minoranza ma costituiscono un campanello di allarme per un servizio che rischia di diventare sempre più ambulatoriale e prestazionale. Vi sono rilievi critici rispetto alle seguenti prestazioni considerate insufficienti: – le psicoterapie – le opportunità di riabilitazione – le attività della vita di tutti i giorni, con valenza ricreativa, culturale, formativa – gli strumenti di avvio al lavoro, vero e proprio “buco nero” per favorire il recupero di una cittadinanza attiva e inclusiva – il trattamento farmacologico e la fatiscenza e scarso comfort dei locali dei CSM. Gli utenti riferiscono anche aspetti di cambiamento in positivo a seguito del loro percorso assistenziale e del trattamento al CSM (Tab. 4). Soprattutto l’accresciuta consapevolezza del disturbo e la conseguente maggior collaborazione con il servizio. Emerge anche una percepita maggior fiducia e speranza nel futuro, un recupero di autostima, una vita tendenzialmente più ricca di interessi, attività e relazioni. Per cui nell’immaginario della maggioranza degli utenti intervistati il futuro prossimo si palesa in termini positivi, mentre poco più di un terzo di essi esplicita un personale senso di «impotenza», «incertezza» e, soprattutto, di «paura» rispetto al proprio futuro non lontano. Rispetto a come si rappresentano gli anni a venire il tipo di disturbo e l’anzianità di presa in carico non fanno la differenza, mentre l’ottimismo massimo è manifestato da chi vive con vari gradi di autonomia in appartamenti supportati o autonomi (cfr. Tab. 7). La famiglia è di gran lunga in testa alla lista delle «risorse» che li aiutano a vivere meglio, mentre è complessivamente modesto l’aiuto che essi ricevono all’esterno della famiglia da amici, conoscenti, vicini o volontari. Spesso sono soli con qualche familiare, per lo più anziano, ad affrontare un disagio che coinvolge tutta la loro vita e in tutti i suoi aspetti e sentono di non poter fare a meno del CSM e della relazione con l’operatore, esprimendo il timore che un ulteriore ridimensionamento del servizio vada a intaccare tempi, frequenza e qualità di tale rapporto.
Tab. 4. Cambiamenti in positivo del paziente da quando è in cura; confronto tra i campioni di utenti e familiari
Il totale supera il 100% perché erano possibili più risposte
Fonte: indagine 2016, Fondazione Internazionale Don Luigi Di Liegro
I 254 familiari intervistati, più spesso la figura materna, sono i naturali caregiver degli utenti dei CSM e nella loro maggioranza (59,5%) partecipano ai Gruppi multifamiliari attivati ormai in tutti i servizi territoriali della capitale (Graf. 1). Pertanto il campione rappresenta i familiari più vicini agli utenti (i cosiddetti caregiver), di cui sono accompagnatori costanti, e più vicini al CSM da cui sono variamente coinvolti. Per queste due caratteristiche sono anche i familiari degli utenti con disturbi gravi.
Essi presentano una scarsa appartenenza alle associazioni di familiari. Questo incide sul loro rapporto con i servizi che avviene a livello individuale e in ordine sparso. Quindi spetta alle Consulte, cittadina o dipartimentale, promuovere proposte che abbiano una ricaduta sui CSM. (Tab. 5). Più ampia è la loro partecipazione ai gruppi di auto-muto aiuto per i quali vi sono ancora ampi margini di crescita data la domanda potenziale di quasi il 50% di chi ora ne è estraneo e/o interessato a parteciparvi.
Tab. 5. Profilo dei familiari intervistati (n. 254)
Fonte: indagine 2016, Fondazione Internazionale Don Luigi Di Liegro
Gli intervistati hanno ripercorso la storia assistenziale dei loro familiari e dato conto delle difficoltà incontrate nella gestione del caso e della loro frequente esperienza di solitudine nel fronteggiarlo, prima per capire cosa stava succedendo e a chi affidarsi e, poi, per assistere il paziente nella quotidianità della vita. I primi esordi del disturbo, collocabili soprattutto nella fase più critica del passaggio di ciclo vitale dall’adolescenza alla giovinezza (18-24 anni), hanno visto spesso la famiglia impreparata e disinformata rispetto alla malattia e ai servizi più idonei per affrontarla. Ma anche indecisa al suo interno, oscillante tra il tentativo della rimozione e della sottovalutazione, poco sostenuta e non sempre ben consigliata in questo dal medico di famiglia, che pur conoscendo la situazione specifica (nel 68,5% dei casi), non svolge in misura adeguata il ruolo che gli spetta di primo osservatore del problema e di inviante naturale ai servizi di salute mentale. D’altra parte anche i CSM hanno allentato negli ultimi anni il loro collegamento operativo e formativo con essi. Succede così che il paziente arrivi ai servizi di salute mentale in “ritardo”, mediamente 6.6 anni dopo il primo esordio della malattia, soprattutto chi contrae il disturbo in età minorile, per un deficit di continuità nella presa in carico tra i diversi comparti di responsabilità nella cura che, ora finalmente, una visione integrata dei servizi di salute mentale sembra poter meglio garantire per il futuro. Il familiare arriva al CSM per lo più dopo aver peregrinato per qualche anno nel circuito privato dell’assistenza, in primis ricorrendo allo specialista, spesso suggerito dal medico di base (Tab. 6). Pertanto, a quasi 40 anni dalla legge 180 che ha affermato la centralità del servizio territoriale, a tutt’oggi solo un quinto degli utenti vi arriva precocemente. L’inviante al CSM è per lo più il familiare (finalmente informato), un parente, un amico o il paziente stesso, spesso dopo un percorso fatto di visite psichiatriche e/o di sedute psicoterapeutiche che nel caso di un disturbo grave non hanno sortito un risultato soddisfacente. La famiglia si arrende o è sollecitata a rivolgersi al CSM, il capolinea di un nuovo percorso assistenziale. Nella loro mediamente lunga storia assistenziale gli utenti rappresentati dalle 254 famiglie hanno visto l’intervento di 4 tipi diversi di servizi. Di essi 73 su 100 hanno sperimentato una struttura di degenza (SPDC o struttura privata per acuti) e quasi 3 su 10 hanno avuto un TSO–Trattamento Sanitario Obbligatorio. Un quarto del campione comprende chi è stato ospite di una comunità terapeutica o di una struttura residenziale socioriabilitativa od occupa un posto in un appartamento “supportato”. Molto desiderati dagli intervistati sono i servizi riabilitativi dei Centri Diurni e dei laboratori vari, sia in funzione di un alleggerimento del loro carico assistenziale che per favorire la socializzazione e magari l’apprendimento di competenze da parte del proprio familiare in vista di un collocamento lavorativo che ha oggi poche possibilità di approdo, nonostante gli sforzi delle cooperative di produzione e lavoro collegate agli stessi CSM. Per cui quella del lavoro è tra le preoccupazioni maggiori dei caregiver familiari e segue solo l’assillo del “dopo di noi”, soluzione che viene affrontata a Roma con un certo vigore dopo le sperimentazioni riuscite dei gruppi appartamento o delle abitazioni supportate con malati gravi, che riportano anche al centro dell’attenzione dei servizi l’assistenza a domicilio. Questa si palesa altrimenti come una prestazione residuale dei CSM – dopo la sua punta massima di diffusione nel decennio successivo alla legge 180 – poco sostenibile con le attuali ristrettezze degli organici. La testimonianza dei familiari rileva anche gli intoppi nell’assistenza dei pazienti, in particolare nelle fasi iniziali della presa in carico, a seguito del rifiuto di uno o più servizi (1 utente su due) per negazione della malattia o non accettazione della stessa, il superamento della quale, non a caso, viene riconosciuto come il cambiamento positivo maggiormente riscontrato nel tempo a seguito del trattamento.
Tab. 6. Excursus assistenziale del proprio familiare dall’esordio del disturbo ad oggi
Fonte: indagine 2016, Fondazione Internazionale Don Luigi Di Liegro
Il rapporto dei pazienti con il CSM, a detta dei loro familiari, è caratterizzato in positivo, in ordine di priorità, da un’assunzione regolare di farmaci, dal rispetto degli appuntamenti (“molto”), dalla relazione positiva con gli operatori fino alla collaborazione al trattamento (“abbastanza”). Tra le cose che il 68,5% dei pazienti gradisce di più dal CSM vi è la relazione, i colloqui con medico e psicologo (soprattutto) e l’attività di riabilitazione basata su attività socio-culturali, ricreative e pre-formative. Gli insoddisfatti dichiarati (il 38,2%), invece, mettono in evidenza aspetti organizzativi dei Centri, dalla segreteria, alla comunicazione telefonica, e lamentano anche la rarefazione degli incontri, spesso ridotti anche nel tempo di ascolto e della relazione con gli operatori sovraccaricati in Centri che si assottigliano di risorse umane, in piena convergenza con quanto lamentano gli utenti. Gli intervistati appartengono a contesti di vulnerabilità attesa come lo è un terzo del campione per la familiarità con il disturbo psichico, dato che altri componenti della famiglia o della parentela hanno fatto ricorso ai servizi di salute mentale, o come il 20% che dichiara di avere difficoltà economiche (3 su 10 considerando anche il passato). Vi è poi una quota analoga di chi a seguito del problema familiare ha visto lacerati i rapporti coniugali sottoposti ad una forte conflittualità, per non parlare delle situazioni di isolamento rispetto alla cerchia parentale e/o al contesto locale. Non mancano neppure le ricadute sulla salute fisica dei componenti la famiglia, quasi sempre i caregiver. Gli aiuti esterni non onerosi su cui il paziente può contare come amici, vicini o volontari – che alleggeriscono anche solo in termini di compagnia e di sostegno amicale il ruolo dei familiari – sono un privilegio di pochi (se ne giovano 12 famiglie su 100). Questa visione di “vuoto relazionale” dei propri familiari sofferenti non è condivisa dal campione di utenti che vantano molti più amici (tra questi vi sono spesso compagni di laboratorio o utenti della struttura frequentata). Tuttavia tale sottovalutazione dei familiari è indicativa di una visione preoccupata, pessimistica e forse esasperata della situazione del proprio congiunto sofferente, come per altro confermano altri indicatori. Fronteggiare la situazione di disagio psichico comporta per i familiari non pochi sacrifici e problemi come il tempo sottratto alla propria vita. Il focus centrale della condizione della persona sofferente fagocita tutte le energie e le risorse. L’intera famiglia è costretta ad affrontare spese maggiorate o minori introiti per l’accudimento del paziente, oltre ad inevitabili rinunce (come qualche viaggio, qualche acquisto o investimento). Ma ne può conseguire anche una diminuita attenzione ai componenti minori o anziani, anch’essi bisognosi di attenzioni e cure. Non sono ancora sufficientemente diffusi i momenti di formazione dei familiari basati sulla trasmissione da parte del servizio di conoscenze utili per affrontare meglio la malattia e i momenti di crisi e, ancora meno, i “gruppi psicoeducazionali” che lavorano sul clima emotivo delle famiglie; entrambi permetterebbero di qualificare i familiari come antenne sensibili degli operatori sull’evoluzione dello stato del paziente. Importanti sono invece i Gruppi Multifamiliari sia come esperienza di conoscenza per gli operatori sia come opportunità per i familiari di un rispecchiamento della propria situazione in quella degli altri, condividendo e comprendendo dinamiche e vissuti. Chi partecipa ai GMF – Gruppi Multifamiliari – particolarmente diffusi nei CSM della ex-RMA che li hanno avviati nel 1997 – dimostra inevitabilmente un migliore e più intenso rapporto con i servizi, attuandosi così una presa in carico dell’intera famiglia.
Riguardo al rapporto con gli operatori, gli intervistati ritengono che essi siano disponibili al dialogo e manifestino loro fiducia, ma meno propensi a fornire informazioni costanti sui congiunti in trattamento. La maggioranza delle famiglie (il 63,3%) riceve un aiuto concreto dal servizio – in particolare quelle più numerose che sono anche quelle che dichiarano di averne meno bisogno – mentre vi è una prevalenza di casi (il 58,3%) che avrebbe necessità di qualche aiuto senza però riceverlo. “Ascolto e comprensione” è l’aiuto maggiormente offerto alle famiglie, mentre quello di cui avrebbero più bisogno consiste nella “conoscenza e trattamento del disturbo”, come a dire che vi è ancora un ampio margine di intervento per fare della famiglia una risorsa aggiunta e partecipe del servizio rispondendo ad una “domanda” reale. I famigliari si dimostrano più soddisfatti del servizio di salute mentale di quanto lo siano i loro congiunti-utenti; se poco meno del 50 per cento di essi si dichiara “molto” soddisfatto, il dato medio dei pazienti è sull’«abbastanza». La figura costantemente meno soddisfatta o più critica nei confronti del CSM è quella materna, che rappresenta gli utenti che hanno manifestato i primi sintomi del disturbo in età evolutiva e con il più lungo rapporto con i servizi. Circa i cambiamenti in positivo registrati dai familiari nell’attuale fase del percorso di cura degli utenti di casa spicca il grado di consapevolezza del disturbo che ora il paziente riesce ad accettare e la maggiore compliance con i servizi. Solo 16 casi su 100 rivelano risultati del tutto insoddisfacenti. Tra questi non sono di valore secondario in termini statistici né, soprattutto, qualitativi, i progressi registrati da quote di utenti nella vita di relazione, nell’attivazione di interessi e nella maggior fiducia e speranza per il futuro. Novità meno positive vengono dall’acquisizione di vantaggi occupazionali e abitativi per una loro vita più autonoma. Ed è quello che i familiari vorrebbero di più dai servizi, in primis un aiuto all’inserimento nel mondo del lavoro. Anche gli aspetti di socializzazione e di attivazione degli utenti e il loro affiancamento a volontari che svolgono una funzione proattiva sono parte delle tre principali aspettative che nutrono in media le famiglie nei confronti dei CSM. Senza dimenticare che al secondo posto in questa graduatoria vi è la necessità di non lasciare sola la famiglia nell’affronto del disturbo psichico. E questo si collega alla preoccupazione preminente delle famiglie: quella dell’assistenza nel “dopo di noi”. Questa preoccupazione determina anche lo stato d’animo dei familiari nell’immaginare il futuro non lontano dei propri cari sofferenti per un disturbo psichico e fa pendere la bilancia sul polo del pessimismo, stante il fatto che privilegiano «impotenza», «paura» e, soprattutto, «incertezza» rispetto a «fiducia», «speranza» e «cambiamento» (Tab. 7). E questo nonostante diano un giudizio sostanzialmente soddisfacente sui servizi. Diversamente, nell’immaginario degli utenti il futuro prossimo si palesa in termini prevalentemente positivi, con parole come «speranza», «fiducia» e «cambiamento», mentre solo poco più di un terzo degli utenti esplicita termini ammantati di pessimismo. Rimane tuttavia quel 44,7% di intervistati, comprensivo di utenti e familiari, che guardano al futuro con qualche nota di pessimismo e tra questi vi è il 17% che manifesta “paura”. Ciò segnala qualche difficoltà nella qualità della relazione utenti-operatori, come dimostrano le lamentele sopra richiamate – dagli utenti in particolare – e su cui i servizi di salute mentale devono continuare a lavorare. Cosa fare pertanto? Non lasciare la famiglia sola, rassicurarla rafforzando le sue competenze rispetto alla malattia, garantire la qualità delle cure e migliorare la vita dei pazienti aiutandoli nell’acquisizione dei beni essenziali di ogni cittadino (lavoro, casa, socializzazione…) perché ri/prendano in mano la loro vita con una progettualità che traguardi il disturbo.
Tab. 7. Parola chiave dello stato d’animo dell’utente rispetto al suo futuro non lontano; confronto tra i campioni di utenti e familiari
*Il totale supera il 100% perché alcuni intervistati hanno dato un ex-equo a due parole
Fonte: indagine 2016, Fondazione Internazionale Don Luigi Di Liegro
Gli operatori intervistati sono 227 – la maggioranza di quelli attivi nei 26 CSM della città metropolitana (ovvero il 52%) – rappresentativi di tutte le figure professionali (Graf. 2) e con un’esperienza professionale mediamente lunga, 24.5 anni, e per lo più non limitata ad un solo servizio (55%).
Si tratta di coloro che hanno accettato di rispondere in autocompilazione alle domande di un questionario consegnato nei giorni in cui venivano effettuate le interviste agli utenti presso il loro servizio. Sono gli operatori che hanno facilitato, con la loro opportuna mediazione, il contatto con gli utenti da intervistare, consentendo così di salvaguardare il vincolo della privacy. Gli “addetti ai lavori” ritengono che le carenze maggiori nelle modalità di funzionamento dei loro servizi si colleghino alle risorse necessarie, sia quelle proprie sia quelle presenti sul territorio – e raramente integrate – che permettono ai pazienti di avere un livello di vita sociale normale pur con le loro patologie. In effetti, i bisogni che i servizi riescono a soddisfare meno sono proprio quelli di tipo sociale, in primis l’inserimento lavorativo. Il personale dei CSM è, invece, soddisfatto di come sviluppa l’accoglienza (soddisfacente nei modi e nei tempi) e la presa in carico, con la predisposizione del relativo progetto terapeutico-riabilitativo personalizzato, anche se non viene formalizzato e concertato con i familiari e gli utenti, questi ultimi ancora poco sostenuti con tecniche di counseling centrate sull’empowerment e poco valorizzati dai servizi come portatori di proposte da raccogliere in incontri o riunioni (Tab. 8). Viene rilevato, invece, l’impegno ad inserire pazienti e famigliari nei gruppi terapeutici multifamiliari (luogo di condivisione, incontro e sostegno), ma meno con riferimento all’istituzione di gruppi formativi per i familiari, psicoeducazionali e di auto mutuo aiuto.
Tab. 8. Valutazione degli operatori circa alcune modalità di funzionamento dei servizi di salute mentale
Fonte: indagine 2016, Fondazione Internazionale Don Luigi Di Liegro
Gli operatori riconoscono alle famiglie problemi e difficoltà rilevanti, in particolare situazioni di tensione, conflitto, precarietà economica e sociale, sicuramente complicati dalla presenza di un congiunto con disturbi. Essi manifestano un largo apprezzamento per l’atteggiamento di collaborazione, fiducia e disponibilità al dialogo dei familiari, ma ciò non sembra interferire con la loro difesa della norma sulla privacy, contestata invece dai familiari che si vedono impedire l’accesso ai documenti sanitari dei loro congiunti. Si apre qui un dibattito per chiarire se tale norma ha motivo di sussistere nell’attuale rigidità, soprattutto se si pensa che il coinvolgimento dei familiari debba avere come fine la formulazione di un progetto terapeuticoriabilitativo condiviso fondandosi su di un’«alleanza terapeutica». Gli intervistati sono consapevoli delle forti criticità che caratterizzano i loro servizi, a partire dal sovraccarico di lavoro in carenza di personale, dall’invecchiamento di questo che si va accentuando nel tempo, in mancanza di un turn over adeguato, oltre che per lo scarso investimento finanziario nel settore. Questi problemi richiedono loro un grande adattamento e comportano maggiore impegno, creatività, connettività con le risorse del servizio e non, oltre che la necessità di approfondire la formazione, soprattutto in tema di abilità relazionali e qualità della comunicazione con utenti e familiari e sugli aspetti di innovazione. Emerge una scarsa dotazione di strumenti informativi/ci e di valutazione costante del servizio con momenti di riflessione sui dati rilevati ed opportunamente elaborati (cfr. Tab. 8). Tuttavia gli operatori sono per lo più consapevoli dell’importanza della valutazione dell’operato del proprio servizio con la necessità di adottare indicatori variegati, processuali (in primis, la riduzione dei ricoveri come esito di un buon lavoro di prevenzione delle crisi) e di benessere del paziente. Questi ultimi rimandano a quelli di esito su cui la loro cultura è ancora in fieri, ma quelli proposti dalla ricerca e da loro privilegiati fanno riferimento alle attese dei pazienti e sono nell’ordine: arricchimento della vita di relazione, stabilizzazione della malattia, recupero di fiducia attraverso la sperimentazione di sé in piccoli progetti che ridanno speranza di ripresa, il lavoro come traguardo (come ha detto un intervistato “senza il lavoro il cerchio non si chiude”) che chiama in causa la cultura dell’inclusione sociale. Anche la funzione della residenzialità è concepita da una maggioranza relativa nell’ottica del traguardo verso l’autonomia e l’autodeterminazione del soggetto, pena la sua cronicizzazione neomanicomiale in luoghi meramente assistenziali o protettivi per utenti e comunità. Infine, la ricerca ha rilevato il grado di accordo degli operatori rispetto ad alcune affermazioni che qualificano in senso moderno i servizi di salute mentale. Una di queste, largamente approvata dagli intervistati, va nella direzione di sostenere il protagonismo degli utenti a partire dai loro punti di forza per seguire percorsi di recupero scelti da loro o con il loro consenso che ci riporta al «nulla che mi riguardi senza di me», uno dei 7 principi di Tavistock ripreso nel Piano Sanitario Nazionale 2003-2005 (Ministero della Salute). Questo è coerente con la diffusa preoccupazione degli operatori per la carenza di strumenti e risorse utili a sostenere tali percorsi di recupero di cittadinanza.
La ricerca ha realizzato 41 interviste in profondità alle figure apicali della salute mentale romana (direttori di DSM, responsabili di UOC-Unità Operativa Complessa e di CSM). Dalla loro testimonianza emerge una valutazione preoccupata per la situazione di elevata problematicità del settore, per di più appesantito di nuovi compiti che implicano per il CSM un forte impegno su più versanti: la gestione (anche burocratica) degli utenti delle strutture residenziali accreditate, l’intervento per gli ex-ricoverati degli OPG, la presenza in ambito penitenziario, la collaborazione intensa con il servizio di Tutela della salute mentale in età evolutiva (TSMREE) e con il Servizio per le dipendenze, nonché le sollecitazioni improprie a svolgere un ruolo di “sicurezza sociale” rispetto a tutte le anomalie comportamentali ad esso delegate nelle comunità in cui operano.
La situazione dei servizi di salute mentale è segnata da una criticità generalizzata e che tende a peggiorare con il tempo, quella della riduzione del personale in assenza di turn over e, con essa, la mancanza di un ricambio generazionale (Tab. 9). Tale criticità intacca l’operatività dei CSM e la qualità del lavoro degli operatori. Con l’assottigliamento degli organici sono altresì probabili ulteriori accorpamenti di servizi e con essi viene penalizzata la proiezione territoriale delle risposte. La drammaticità e insostenibilità della situazione impedisce l’attuazione di una psichiatria di comunità: è ormai pressoché impossibile per i CSM fare promozione della salute, prevenzione e intervento precoce, mentre quello nelle scuole è demandato a poche unità specializzate su adolescenti e giovani e i rapporti con i medici di medicina generale sono ormai desueti o avvengono in ordine sparso. La contrazione graduale e continua degli organici genera delle problematiche sostanziali. Nel momento in cui si perdono specifiche funzioni con l’uscita dal servizio di operatori incaricati, si impoverisce il know how di saperi. Questa contrazione impedisce anche un lavoro d’équipe basato sulla condivisione multidisciplinare e la discussione dei casi con disturbi più gravi e persistenti. Il rischio che ne deriva sarà la tendenza ad un lavoro ambulatoriale e a prestazioni dove la somministrazione dei farmaci rappresenterà una facile scorciatoia. I piani terapeutico-riabilitativi, ancorché non formalizzati, rimangono monchi e di difficile attuazione. La tendenza è a selezionare l’utenza per gravità ma senza garantire la prognosi dei portatori di disturbi emotivi comuni. Gli organici sono sempre più carenti nella figura dello psicologo (con relativa riduzione delle psicoterapie), dell’assistente sociale (con sempre più deficitarie risposte ai bisogni di sostegno sociale degli utenti), e quasi ovunque del personale di riabilitazione (educatori e terapisti della riabilitazione) che, salvo eccezioni, si limita alla gestione del Centro diurno, anch’esso in difficoltà per il calo delle risorse e per lo scarso turn over dei suoi utenti, mentre l’apertura al territorio e alle sue risorse comincia ad attuarsi in alcune esperienze. Il tempo dedicato alla relazione degli operatori con gli utenti si riduce, così come la frequenza delle visite, frustrando il bisogno di comunicazione non programmata da parte degli utenti e irrigidendo la funzione di accoglienza e segreteria dei servizi. Non a caso la comunicazione operatore-utenti, da questi ultimi molto ricercata e apprezzata ma considerata anche tra gli aspetti di criticità, spiega l’accentuazione dell’importanza che i responsabili dei servizi di salute mentale attribuiscono, nella formazione degli operatori, ai temi della “relazione” e di come si realizza con l’utente un’«alleanza terapeutica».
Tab. 9. Le criticità maggiori dei CSM per l’assottigliamento degli organici
1 | Riduzione/rinuncia alla promozione e prevenzione della salute mentale |
2 | Selezione dei casi per gravità/complessità dei disturbi |
3 | Compromissione del lavoro di equipe nell’affronto dei casi più gravi |
4 | Accentuazione della carente risposta ai bisogni sociali degli utenti in specie del lavoro |
Tab. 10. Aspetti di innovazione nei Servizi di salute mentale
1 | L’attenzione all’intervento precoce sui giovani I gruppi terapeutici e multifamiliari |
2 | Gli interventi sull’abitare (appartamenti personalizzati e supportati) |
3 | La riabilitazione integrata con i CSM e fuori il Centro Diurno |
4 | INNOVAZIONI DI TIPO ORGANIZZATIVO (Case management, “Quadrilatero” e raccordo territorio-residenze, riorganizzazione dei percorsi residenziali per territorio e/o per tipologia di utenza, l’integrazione con il Distretto per l’accoglienza, Assistenza Domiciliare Programmata) |
5 | INNOVAZIONI SUL PIANO DEGLI STRUMENTI (Cartella clinica informatizzata) |
La ricerca ha interpellato i presidenti delle associazioni dei familiari e del volontariato più attive per rilevarne il ruolo, il loro rapporto con i CSM e per valutare lo stato dell’offerta dei servizi (Tab. 11). Come primo dato saliente emerge che l’associazionismo dei familiari in questo settore ha ormai maturato la consapevolezza di non potersi limitare a svolgere una funzione informativa e rivendicativa o di tutela a beneficio delle famiglie, ma di doversi assumere un impegno operativo nei confronti delle persone con disturbi psichici, talvolta in collaborazione con i servizi di salute mentale. E’ la presa d’atto che le risposte pubbliche non sono in grado di soddisfare in misura sufficiente e/o soddisfacente tutti i bisogni dei cittadini con disturbi psichici. L’orientamento delle associazioni è quello di svolgere un ruolo sussidiario, intervenendo con proprie proposte, risorse e interventi a implementare i servizi pubblici con cui intendono collaborare affinché essi funzionino al meglio. I CSM, nonostante una prima fase di diffidenza e di timore stanno cominciando ad apprezzare e valorizzare tale contributo che ha margini importati di crescita. Si nota al riguardo anche un passo avanti sul piano del lavoro di rete tra le associazioni, proprio per realizzare meglio questa funzione di stimolo e intervento complementare alle risposte del servizio pubblico. Anche perché l’attivismo delle associazioni può trovare oggi nelle Consulte della salute mentale maggiore vigore e incisività di proposta, purché cresca il confronto e la coesione tra di esse e si instauri un’alleanza costruttiva con gli altri componenti e i responsabili dei servizi di salute mentale. Tali servizi, così come la salute mentale, sono considerati dei “beni comuni” da salvaguardare e migliorare continuamente e con determinazione. Per questo i responsabili delle associazioni guardano con particolare preoccupazione gli attuali problemi dei CSM che si riverberano pesantemente su utenti e famiglie. Essi ne colgono aspetti di criticità che attengono anche alcune loro modalità operative. In particolare ribadiscono la convinzione che non si può pensare di curare un paziente senza prevedere anche il coinvolgimento della famiglia che è il suo naturale contesto di vita. Essi ritengono che i servizi dovrebbero porre maggiore attenzione al nucleo primario come risorsa attiva nella cura del paziente. Un passo avanti in tal senso è il diffondersi ovunque dei Gruppi multifamiliari da cui, non a caso, hanno avuto origine alcune associazioni e alcune iniziative di queste. Essi ritengono che per i servizi poter contare su una famiglia collaborativa, intesa come risorsa attiva, è garanzia di maggiore efficacia degli interventi. Come è importante che lo sia il paziente perché se non trova le risorse dentro di sé rimane imbrigliato nel suo disturbo. E’ quindi necessario che gli operatori aiutino questo percorso di recupero di sé del paziente nella direzione della recovery.
Tab. 11. Come cambiano le Associazioni dei familiari
Fonte: indagine 2016, Fondazione Internazionale Don Luigi Di Liegro
La recovery è un processo auspicabile per tutti i pazienti, anche i più gravi, e su cui converge, con alcuni distinguo, l’attenzione dei diversi “testimoni” interpellati nella ricerca che ne hanno chiarito linguaggio e significato vantando la continuità con il paradigma della psichiatria riformata del nostro Paese. In particolare, è un concetto emblematicamente rappresentato da alcune frasi raccolte dalle testimonianze di pazienti9 che esplicitano anche le condizioni necessarie per il realizzarsi con successo di tale processo di cui essi sono protagonisti con il concorso consapevole degli operatori.
“Lei non sa quanto mi ha fatto piacere capire che lei era interessato a me non soltanto come paziente ma anche come persona”
E’ anzitutto necessario un atteggiamento degli operatori favorevole a considerare il paziente una persona e non un sintomo o un caso da trattare e quindi a riconoscergli uguale dignità, cosa che fonda un’alleanza terapeutica.
“Ciò che mi ha aiutato in realtà è essermi sentita presa sul serio”
Un secondo elemento che aiuta un paziente a riprendersi è avvertire la fiducia dell’operatore, che pertanto crede nella sua persona e quindi ne sostiene la motivazione, ne incoraggia e sollecita i progressi.
“Perché non mi chiede mai cosa faccio io per aiutare me stessa?”
Il paziente che è inserito in un processo di recovery capisce di dover essere protagonista del suo riprendersi. Egli nutre quindi l’aspettativa che l’operatore si occupi di lui sollecitandone al massimo l’investimento delle potenzialità e risorse così da riuscire gradualmente a far fronte ai bisogni della sua vita in modo più autonomo e autodeterminato.
“Tutta la storia della mia salute è stata un’esperienza molto difficile, perché ho davvero dovuto ricostruire me stesso come persona”
In definitiva il processo di recovery ha come approdo la ricostruzione di sé come persona. Ciò richiede all’utente notevoli sforzi, pazienza, perseveranza nel tempo con la speranza di costruire un futuro migliore. Tutti gli utenti devono poter essere aiutati a riscoprire potenzialità e a realizzare progetti che danno significato alla loro vita e che permettono di sperimentare successi, anche modesti, che alimentano tale sfida. Per i servizi di salute mentale ciò significa non limitarsi ai “livelli essenziali di assistenza” ma promuovere i “livelli essenziali di cittadinanza”.
In conclusione la ricerca ha permesso di approfondire gli elementi cruciali di conoscenza circa il fenomeno, come era nelle attese dei ricercatori, per portare un contributo di riflessione e facilitare il cambiamento. Cambiamento che, per il sistema dei servizi di salute mentale di Roma, si profila necessario a partire dal recupero di risorse umane, fattore cruciale nella pratica relazionale della psichiatria. Il dato che emerge con assoluta evidenza dalle interviste ai diversi target della ricerca è l’insufficiente dotazione di personale, sia nel complesso che, in particolare, di psicologi, assistenti sociali e terapisti della riabilitazione. Il mancato turn over degli operatori da oltre dieci anni sta causando nei servizi una serie di problemi, percepiti da tutti gli intervistati, sia sul versante della prevenzione che della cura e della riabilitazione degli utenti. Siamo al “punto di non ritorno” rispetto ad una accettabile qualità dei servizi e probabilmente alla sopravvivenza per molti di essi. La Regione Lazio sembra non avere alternative rispetto ad un urgente ricorso a nuove e adeguate risorse umane e a scelte coraggiose che avvalorino ancor più la centralità del territorio rispetto ai luoghi di degenza (più garantiti da standard e risorse) e che attribuiscano altresì ai DSM maggiori responsabilità nella programmazione e gestione della spesa. Il rischio è che decenni di buona psichiatria territoriale nel dopo Basaglia, comprese le pratiche di prevenzione, l’attività domiciliare e la riabilitazione sul territorio, si perdano con gli operatori che lasciano i servizi per raggiunti limiti di età senza poter trasferire il loro know how alle nuove leve e quindi garantire la continuità dei servizi. Non bastano più a sostenere il settore operatori innovativi e alcune sperimentazioni riuscite, in ragione del fatto che quasi ogni aspetto fenomenologico trattato dalla ricerca sembra impattare negativamente sul depauperamento delle risorse umane con i relativi saperi, e ciò impedisce altresì di connettere limiti e carenze dei servizi di salute mentale a cause intrinseche al sistema dei servizi e alla cultura delle pratiche stesse. Lo stesso accorpamento delle ASL se consentirà, nel medio-lungo tempo, di omogeneizzare servizi e percorsi e di generalizzare buone pratiche, difficilmente può contribuire ad ottimizzare le risorse attualmente disponibili e quindi migliorare gli standard territoriali dell’assistenza.