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Storie di Salute Mentale

La storia di Andrea e lo sguardo che cambia

Questa è la storia di Andrea, e di come cambia uno sguardo. Lo chiamavamo “Andrea il brutto”.

Ce n’erano cinque di Andrea, tra gli adolescenti del complesso di palazzi appena costruiti, in cui le nostre famiglie erano andate a vivere, convergendo da tanti quartieri della Capitale. C’era Andrea il moro, Andrea il biondo, Andrea il roscio (così chiamiamo chi ha i capelli rossi noi romani), Andrea il bello. E poi, appunto, Andrea il brutto. I soprannomi erano stati affibbiati dal più grande tra i ragazzi che si ritrovavano a fare gruppo in piazza, un bravo ragazzo, in fondo, ma con una esuberanza da bullo. Anche se il bullismo, per quanto molti di noi lo avessero già vissuto, era un termine e una consapevolezza lontana dall’essere compresa e rifiutata, in quei primi anni ’80.

Lo chiamavamo dunque Andrea il brutto. Per comodità, diciamo così. In modo da distinguere gli Andrea, quando si parlava o si formavano le squadre per giocare a pallone in mezzo alla strada. Ma se non sapevamo ancora cos’era il bullismo, era chiara la connotazione dispregiativa in quell’etichetta “Andrea il brutto”.
D’altronde, era “un tipo strano”: aveva dei tic, a volte sembrava parlare da solo, altre volte tendeva agli scatti d’ira quando riteneva di aver subito un fallo di gioco, e per qualcuno di noi il gusto era proprio quello di provocarlo e vederne la reazione. “Strana” era anche la sua famiglia, dal nostro punto di vista di adolescenti viziati dalle attenzioni dei nostri genitori e dal benessere che ci avevano regalato. Però sapevamo vedere la dignità della mamma e del papà di Andrea e sentivamo un po’ della fatica di due genitori con handicap che si spostavano coi mezzi pubblici per andare a lavorare e fare la spesa (noi che venivamo da famiglie che possedevano due automobili). Tra i miei ricordi dell’adolescenza c’è indelebile la loro zoppia, il passo claudicante, quando tornano a casa, trascinandosi lentamente per la piazza su cui si affacciavano i nostri appartamenti, come un teatro di asfalto e cemento.
Ed è stato per farsi accettare da tutti noi adolescenti della piazza che, alla fine della terza media, Andrea ha organizzato una sfida a calcio: noi contro i suoi compagni di classe. Solo che quelli venivano dalla sponda opposta della strada consolare intorno a cui stava venendo su il nostro quartiere. Loro venivano dalla parte di edilizia popolare, messa in piedi molti anni prima in prossimità del fiume, “deportati” in mezzo al niente, come è capitato a tanti in Italia. Così, in questo contesto pasoliniano, in cui Pasolini aveva davvero vissuto per un po’ di tempo, fu giocata la partita che non avrebbe dovuto mai farsi, una partita che è finita subito dopo l’inizio e che ha segnato la relazione di Andrea con il nostro gruppo.
Avevamo di fronte ragazzi che la terza media l’avevano ripetuta una o due volte, con l’evidente voglia di stabilire chi comandasse tra gli adolescenti del quartiere. Ma a deciderlo non sarebbe stato chi segnava più gol. Credo sia durata più la rissa della partita, visto che alla seconda azione stesi con un pugno un tipo, detto “il Tappo”. Per sfortuna del “Tappo”, indossavo i guanti da portiere, i cui disegni e cuciture si stamparono con precisione sul suo zigomo. Non ricordo molto di quello che è successo dopo, a parte la consapevolezza di avere sopra di me il Tappo, che nel frattempo mi aveva steso in terra, e una ventina di ragazzi che si picchiavano un po’ a caso.
Quello che invece ricordo sono le ronde di ragazzi in motorino che, nei giorni seguenti, si affacciavano in piazza tenendo ben in vista le catene. Le guidava il Tappo, evidentemente in cerca di vendetta, e che, dopo un paio di mesi in cui nessuno di noi si fece vedere in strada, si annoiò e sparì. E noi tornammo alla vita di comitiva, fatta delle prime sigarette, della musica di Vasco Rossi e di pallone sempre tra i piedi.
Ad Andrea andò peggio. Si ritrovò emarginato da noi, che pensavamo di essere finiti in una trappola per rifarsi di come lo trattavamo, ma anche dai suoi compagni di scuola, che non avevano potuto riscattare l’affronto subito dal “Tappo”. Fu talmente emarginato da noi, che non gli parlavamo, anzi non lo salutavamo proprio, e lo escludemmo dall’unica attività che ci aveva uniti: dare quattro calci a un pallone.
Per gli anni seguenti, mentre la vita aveva sciolto la nostra comitiva e io ero uno dei pochi rimasti a vivere nel quartiere, al massimo l’ho degnato di un “ciao”. Ma più spesso, quando lo vedevo da lontano, cambiavo strada. Facevo finta di niente, ma lui lo sapeva: era “un tipo strano”, mica stupido, come ebbe modo di dirmi, una ventina di anni fa. E poi era abituato ad essere ignorato e respinto sin da piccolo. Probabilmente da prima che per noi della piazza diventasse “Andrea il brutto”.
Ecco, io ho visto il disagio psichico di Andrea. L’ho visto in alcune sue manifestazioni e forse ne sono stato anche una piccola parte, contribuendo alla sua emarginazione, facendogli pagare il suo non essere omologabile, trattandolo con la ferocia e l’insensibilità di cui si è capaci in adolescenza.
Ma quando, lavorando per la Fondazione Di Liegro, ho visto le foto scattate da Andrea, di cui ricordavo il cognome (anche se non lo avevo quasi mai chiamato per nome e cognome), ho rivisto il passato, l’adolescenza e la vita, ma con una prospettiva diversa e nuova. Gli scatti realizzati da Andrea nel corso dei laboratori di fotografia della Fondazione guardano la città in modo geometrico, disegnano interazioni tra mezzi di locomozione e contesto urbano, in cui le persone sono sfumate, rappresentano una parte del paesaggio quasi trascurabile, fino a sparire.
Che l’autore di quelle foto fosse davvero l’Andrea che conoscevo, e non un omonimo, l’ho capito nel corso di un incontro della Fondazione su Zoom, durante il lockdown. Ho riconosciuto la voce e il viso di Andrea. Nelle espressioni, nello sguardo e nella voglia – quasi ossessiva – di relazione con gli altri, ho rivisto l’Andrea adolescente e riconosciuto i segni del disagio. Quel disagio mentale che, prima di arrivare in Fondazione, ignoravo e non ero capace di vedere nelle persone.
Alla Festa d’estate che la Fondazione Di Liegro organizza ogni anno in giugno, facendo incontrare utenti, volontari e familiari, e in cui si rivivono le esperienze dei laboratori di arte-terapia e socializzazione realizzati durante l’anno, ho incontrato Andrea. Lui non mi ha riconosciuto subito, perché non ero evidentemente collocabile in un contesto diverso dalle vie del quartiere. E io, stavolta, non ho cambiato strada. Gli sono andato incontro: “Ahò, che non mi riconosci?”.
Abbiamo parlato finché la festa non si è conclusa, passando in rassegna qualche decina d’anni di vicende nostre, delle famiglie e delle conoscenze comuni. Andrea vive ancora lì, coi suoi genitori, nell’appartamento che si affaccia ancora sulla piazza. Una piazza che non è più un teatro o un campo da calcio, ma solo un parcheggio sempre pieno di auto.

Un volontario

Photo by Batın Özen from Pexels: https://www.pexels.com/photo/kids-playing-soccer-in-the-street-7610880/

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